ReportageSenza Mimmo Lucano, Riace è una città fantasma: è ora di farla rinascere (e di far ripartire l’accoglienza in Italia)

Paese deserto, negozi vuoti, lavoratori ed esercizi commerciali in credito con lo Stato. La Riace del dopo-Lucano è una città morta. E il sindaco Trifoli dice: parteciperemo al prossimo bando per l’accoglienza

Alberto PIZZOLI / AFP

Riace. Pomeriggio d’estate. Piazza deserta e silenziosa. “Governo degli inciuci”; “Maria Elena Boschi” gracchia uno smartphone. Un vecchio filmato di Matteo Salvini. È una signora maghrebina a tenere in mano il telefono, alza gli occhi e storpia il nome: “Serfini”. Non vuole parlare di politica, non vuole parlare di niente, non parla italiano, dice. Rientra in casa. La Taverna Donna Rosa, che offriva cibi di ogni angolo del mondo è chiusa. Porta impolverata. Quasi tutte le porte intorno sigillate. Dalla casa della signora spuntano due bambini di colore. Il maschietto parla una lingua tutta sua, sembra un alfabeto farfallino, si distinguono poche parole: “scarpe”, “mamma”, “arcobaleno grande a mare”. Si chiama Aman, così sembra di capire. A fianco una bimba con le treccine, un vestitino viola e un nome, pieno di aspirate, che pronuncia mentre prova a tradurre le parole del fratellino. Aman al posto delle ciabatte ha un paio di calzini, e corre sul mattonato della piazza, e va a sedersi sugli scalini accanto ad una sorella più grande, che spunta e risale in piazza da via Pinnarò. Il bimbo ha male ai piedi, saltella, finge un urlo di paura quando una mosca prende a ronzargli intorno. Alla fine si nasconde dietro una macchina, e spia i movimenti degli altri.

Riace ha un’aria straniata, i murales multicolore, compreso quello magnifico di Nik Spatari che raffigura Gianluca Congiusta, un ragazzo normale, della Locride, vittima di ‘ndrangheta, sembrano appelli giocosi a un dito arcigno puntato contro. Pochi i migranti rimasti, raggrumati attorno a quella piazza dove ruotava l’accoglienza dell’ex sindaco Mimmo Lucano. Votato solo nel 2016 da Fortune come uno dei 50 uomini più influenti del mondo, “Mimmu u curdu” è finito per più di un anno in una casetta a Caulonia. Il divieto di dimora gli è stato appena revocato.

Il casolare che si erge al centro della piazza riacese porta sul suo fianco un vetro forato da due proiettili esplosi 10 anni fa, segno di sfida all’ex sindaco. Palazzo Pinnarò, pochi metri più giù, quartier generale del “Curdo”, ha le porte sigillate e anche quelle scalfite da un proiettile. Mettiamo il dito nel buco della pallottola. Chiuse le botteghe dove lavoravano i migranti. Nessun segno di vita. Il telaio fermo da un lato, il vetro da lavorare dall’altro, la ceramica dura. Anche la fattoria didattica, su cui si getta lo sguardo puntando gli occhi verso il basso, è immobile: si faceva la raccolta differenziata con gli asini, che trovavano ricovero nelle piccole stalle in fondo al vallone. Ora le stalle sono chiuse. E gli asini scomparsi.

Un turista inglese si fa guidare da una ragazza tra i luoghi simbolo dell’accoglienza. Un altro gruppetto di ragazzi si inerpica per le viuzze, sono curiosi di vedere “quel posto di cui tanto si è parlato”, facendo foto a vecchie insegne e osservando le botteghe vuote.

Il problema non è l’accoglienza, dicono, ma che “loro” sono più numerosi di “noi”, che “paghiamo le tasse alte il doppio del normale

Risalendo la stradina che dalla Chiesa porta al Comune, in una manciata di metri, cinque donne chiacchierano davanti ad un negozio di alimentari. Davanti al bar, un gruppetto di uomini gioca a carte, beve birra, guarda un modello di auto sul cellulare. Poco più in là, di fronte al palazzo comunale, si trovano altri anziani, fermi su una panchina davanti all’anfiteatro colorato e ormai sbucciato dal sole, che dà su un parco giochi vuoto. Altri ancora stanno seduti davanti al bar nel suo giorno di chiusura, fissi come un fermo immagine di Ciprì e Maresco. C’è solo una ragazza di colore, che occupa una sedia ai tavoli riservati ai clienti del bar. Non è del posto, dice; non vuole parlare; e attacca una telefonata urlata che risuona per tutta la piazza, per minuti e minuti.

In un pomeriggio di fine agosto si potranno contare, in tutto, una trentina di anime. Sulla panchina gli anziani chiacchierano con alcuni visitatori, un paio di ragazzi venuti da poco lontano: il problema non è l’accoglienza, dicono, ma che “loro” sono più numerosi di “noi”, che “paghiamo le tasse alte il doppio del normale. Noi, che abbiamo una pensione da 500 euro al mese, mentre a loro danno 35 euro al giorno”. Il refrain – sempre uguale – è quello dei soldi “ai neri”, quelli pagati profumatamente per non far nulla e bivaccare. “Qua – dice l’anziano – non si poteva stare, perché poi se ne venivano tutti nel parco e le mamme avevano paura a portarci i figli”. Perché? “Perché si ubriacavano”. E c’è stato qualche problema? “No, non è mai successo niente”. Ma Riace era un simbolo, gli dicono. “I giornali. Sono i giornalisti che hanno ingrandito tutto e creato una cosa che non c’era. Ma quelli venivano da fuori, che ne sapevano di Riace?”.

Dall’altra parte della strada il palazzo comunale è aperto. Dal primo piano, quello degli uffici, si vede il murales di un bronzo di Riace col volto di Lucano, il suo ex inquilino. Le luci, dentro il palazzo sono spente, gli uffici vuoti, ad eccezione di uno, dove una ragazza giovanissima lavora al computer. “Il sindaco non c’è”, dice. E nemmeno la scritta “i cittadini si ricevono sempre”, che Lucano aveva fatto mettere lì al suo primo mandato. Che fine ha fatto, perché toglierla? “Non l’ho fatta togliere io – dice Antonio Trifoli, il sindaco nuovo, che incontriamo a Riace Marina – L’hanno tolta nel periodo in cui Lucano era sindaco ma qua a Riace non ci poteva stare”.

Trifoli è l’antagonista storico di Lucano, quello che in Consiglio comunale l’ha sempre contrastato dai banchi della minoranza. Dopo 15 anni, però, ha vinto, e Lucano nella sala delle adunanze non ha più un posto. Ma anche se lo avesse conquistato alle elezioni, non avrebbe potuto occuparlo, perché per quasi un anno è stato confinato fuori dalla città dei Bronzi. Una misura cautelare controversa e contestata. E intanto il processo va avanti.

“Non è difficile capire che essere leghisti in Calabria non ha senso. Ma chi ha votato Lega qui non l’ha fatto mica per credo politico: era un gesto di protesta”


Antonio Trifoli

Le accuse a carico di Lucano sono diverse, pesanti. Le udienze hanno sfornato testimonianze traballanti, che più volte hanno fatto sbottare il presidente del collegio giudicante. In questa aula si portano prove, ha detto – parafrasando – non gossip. Il “Curdo”, come lo chiamavano dalle sue parti, non ci va più in quella stanza del tribunale di Locri, almeno da un po’. Dopo aver parlato, dopo aver raccontato la sua “utopia della normalità”, ha deciso di stare lontano. Lo accusano di tante cose, come aver favorito l’immigrazione clandestina o aver truffato lo Stato per intascare i soldi dell’accoglienza. Ma lui ha sempre respinto ogni accusa: “ho solo aiutato chi scappava dalla guerra”, ha ribadito ogni volta che è stato possibile.

“Che Lucano sia il tipo che usa i soldi dell’accoglienza per comprarsi case o auto lo escludo, non è il tipo e si vede – dice Trifoli – Ma ha gestito molti soldi. Che però ha usato per l’accoglienza”. Il ruolo dell’antagonista a tutti i costi al sindaco sta stretto. Non lo vuole, misura le parole, prende le distanze dai fan e dai nemici. E gli sta stretta pure la divisa da leghista, che pure ha guadagnato guidando una lista civica che include tra i suoi eletti il segretario locale del Carroccio. “Ma guardate che c’era pure uno storico iscritto al partito socialista e gente di ogni estrazione in quella lista – contesta – Nei Paesi la politica nazionale conta poco”.

Eppure, gli si fa notare, la Lega ha vinto alle Europee anche a Riace e il suo percorso politico sembra portarlo proprio alla corte di Salvini: prima militante del Pd, salvo poi stracciare la tessera in segno di protesta contro il suo partito, strenuo sostenitore di Lucano, almeno ai tempi, e farsi fotografare sorridente assieme ad un Peppe Scopelliti appena eletto governatore della Calabria nel 2010 sotto la bandiera del Pdl. L’approdo alla Lega non sarebbe stato poi così strano. “E invece non sono leghista e non mi va che mi si descriva come tale”, insiste. “D’altronde, non è difficile capire che essere leghisti in Calabria non ha senso. Ma chi ha votato Lega qui non l’ha fatto mica per credo politico: era un gesto di protesta. Così come un anno prima, alle politiche, aveva fatto il botto il M5s”. Meglio Salvini o Lucano? “Nessuno dei due, almeno politicamente. Gli estremismi non fanno bene alla gente, la gente ha bisogno di altro. Io sono completamente distante dal modo di entrambi di fare politica. In fondo loro due sono uguali, almeno nella propaganda”. Ma Salvini sfrutta le fake news, cavalca l’onda emotiva delle notizie, ha una rete larghissima che sfrutta quotidianamente parlando personalmente al popolo del web, aizzandolo. Lucano no. E hanno politiche totalmente diverse. Come si fa a dire che sono uguali? “Beh, un po’ Lucano fa le stesse cose di Salvini – contesta Trifoli – Si è creato un movimento mediatico che ha costruito una favola che non c’era”. Però, c’è anche un racconto di segno opposto, che lo dipinge come il peggiore dei delinquenti, talvolta manipolando la realtà. Non è forse peggio? “Anche quello è sbagliato”, ammette.
Intanto la de-ideologizzazione dell’amministrazione riacese sembra aver fatto un passo avanti: lo scorso quattro settembre il consigliere della Lega al Comune di Riace, Claudio Falchi, si è dimesso, e Trifoli assicura che, nella maggioranza è tutto tranquillo.

È giusto che Lucano non possa nemmeno entrare a Riace? “Assolutamente no – aggiunge – tenerlo lontano non ha senso”

Incontriamo Trifoli nella piazzetta di Riace Marina, qualche manciata di metri quadrati circondati dagli alberi che la separano dai giochi per i bambini. Ai tavolini di un bar, il sindaco saluta la gente che passa, indica la panchina rossa contro la violenza sulle donne dedicata a Mary Cirillo, uccisa nel 2014 dal marito. “Sono iniziative belle e significative”, spiega. Il posto in cui piazzarla non è stato scelto a caso: “Riace superiore e Riace Marina sono lo stesso Comune ma due mondi completamente diversi – racconta – E se c’è una cosa che Lucano ha sbagliato è non aver prestato attenzione alla Marina. Qui, oltre questa piazzetta, non c’è mai stato nulla. Ed è per questo che il suo progetto è fallito: oltre all’accoglienza ci deve essere anche altro”. Perché ha perso dopo tanti anni? “Un po’ è normale che dopo tanto tempo ci sia un cambiamento: è capitato a me ma poteva capitare a qualcun altro di prendere il suo posto, credo sia fisiologico. Ma la mia idea è che si sia fidato delle persone sbagliate – racconta – Non dubito della sua buonafede, ma qualcuno ne ha approfittato. Con l’accoglienza sono nate una miriade di associazioni molto diverse da Città Futura, che avevo fondato insieme a Lucano molti anni fa. Poi le nostre strade si sono divise ed io sono diventato il suo più grande oppositore. Non ho mai fatto mistero di non essere d’accordo con lui. Ma credo che a rovinarlo sia stato questo proliferare, incontrollato, di associazioni”.

La sua idea di accoglienza dolce, però, è giusta, dice. “L’idea di accogliere le persone integrandole, di non buttarle in dei campi di concentramento (è un lapsus, ma non se lo rimangia, ndr) era buona. E l’ho condivisa, tant’è che insieme abbiamo sviluppato l’idea della banca etica avviando l’accoglienza nel borgo. Per i primi anni non ci sono stati problemi, poi, però, i numeri sono diventati insostenibili. Non si possono portare 500 persone in un Paese così piccolo”. I numeri, però, sono anche frutto di una disorganizzazione dello Stato, che ad un certo punto ha preteso spazi che non c’erano, imponendo al sindaco di Riace di accogliere i migranti ad ogni sbarco. “È vero – dice Trifoli – C’è stato un periodo difficilissimo, di emergenza costante, ma non bisognava andare oltre quanto non fosse possibile. Doveva dire di no”. E come si fa a dire di no ad un prefetto che pretende dei posti per un’emergenza?

Lo stesso Stato, poi, quando ha deciso di smantellare tutto, ha smesso anche di pagare, lasciando così voragini di debiti con fornitori e lavoratori del progetto, questi ultimi, oggi, rimasti disoccupati. “All’inizio i pagamenti procedevano abbastanza speditamente – dice Trifoli – Poi, però, è cambiata la politica nazionale e hanno smesso di pagare. Qui, intanto, si continuava a impegnare risorse che ancora non c’erano, anche giustamente, dico io. E si è creata questa situazione”. Il Tar, pochi mesi dopo la decisione del Viminale di chiudere lo Sprar, ha decretato l’illegittimità di quella decisione. I migranti, nel frattempo, sono quasi tutti andati via, rimane solo qualche famiglia. Il Paese è vuoto e la scuola a Riace superiore non aprirà più. Perché non ci sono più i bambini. “Non solo – corregge il sindaco – in realtà è stato il provveditorato a decidere così: era inutile tenere due scuole in un solo Paese. E poi sì, a Riace superiore non c’erano quasi più bambini. Adesso uno scuolabus porta tutti in Marina e la scuola si fa lì”. L’accoglienza non si farà più? “Se ci sarà un bando il Comune parteciperà, l’ho detto sin da subito”, spiega ancora. Ma almeno umanamente, chi preferisce Trifoli tra Salvini e Lucano? “Io e Mimmo siamo cresciuti insieme, siamo amici, so chi è – dice – Che domande sono?”.

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