80 milioni.
È il numero totale di capi di abbigliamento che, ogni anno, vengono acquistati in tutto il mondo. La cifra, per forza di cose approssimativa, viene dal documentario The True Cost, del 2015, che denuncia l’impatto, sia in termini ambientali che di sfruttamento, dell’industria della moda. È motivo e conseguenza della recente, diffusa e pericolosa bulimia di vestiti nuovi che ha colpito i Paesi più ricchi. Nel 2014, secondo alcune statistiche, un occidentale possedeva il 60% in più di vestiti rispetto al suo omologo del 2000 – ma che duravano la metà. Per gli americani, poi, il numero era ancora più alto: lo statunitense medio, nel 2014, possedeva cinque volte di più gli abiti del 2000.
Colpa (ma anche merito) del fast fashion, che grazie a una riorganizzazione dei cicli produttivi e distributivi (il primo in questo senso è stato Zara), è riuscito a rendere accessibile a tutti, a prezzi stracciati e in tempi brevissimi, l’ultimo trend di stagione. Risultato: ci sono tanti, troppi abiti in circolazione, durano poco e le persone non sanno come disfarsene. Tanto che solo il 15-20% dei vestiti donati ai negozi delle charity arriva nei negozi delle charity. Tutto il resto è in eccesso. E finisce ad alimentare le discariche di tutto il mondo.
Il settore della moda sarebbe responsabile del 10% delle emissioni di diossido di carbonio in tutto il mondo
È, nonostante tutto, il segno del successo di un’industria che, nel suo complesso, è arrivata a valere 2.400 miliardi di dollari (stime della ricerca McKinsey: The State of Fashion 2017). È l’unica davvero in crescita negli ultimi decenni, anche se la maggior parte dei profitti (il 97%) viene accaparrata da 20 aziende, quasi tutte appartenenti al segmento più alto del fashion. Gioie, ma anche noie: secondo alcuni calcoli, l’intero settore della moda sarebbe responsabile del 10% delle emissioni di diossido di carbonio in tutto il mondo.
A questo va aggiunto il problema dello smaltimento dei materiali. Il cotone compone ormai soltanto il 40% degli indumenti, mentre le fibre sintetiche sarebbero, in media, il 75%. Da tempo il passaggio verso il poliestere, pratico, leggero, economico (ma non biodegradabile: è anche da qui che si origina il problema delle microplastiche che arrivano ai mari), ha aumentato i livelli di inquinamento: ogni anno, per produrre il fabbisogno mondiale di poliestere, vengono impiegati 7mila barili di petrolio.
Tornare alle fibre naturali potrebbe essere comunque sconsigliato, visto che la coltivazione dello stesso cotone impiega il 16% del totale dei pesticidi utilizzati al mondo. Servono altre soluzioni: il lino, per esempio, ha un’impronta ecologica minore. Lo stesso vale per la canapa. E forse potrebbero essere una novità salutare anche eventuali nuovi tessuti ottenuti con le alghe. Ma soltanto se si riuscirà a farli andare di moda.