* Pubblichiamo un estratto del libro di Francesco Cancellato, ex direttore de Linkiesta, ora vicedirettore di Fanpage, Il Muro: La fine della guerra fredda in quindici storie, pubblicato da Egea (2019).
Die Mitte. Il centro. È così, con uno slogan di due parole e un punto, che Angela Merkel si presenta ai delegati del congresso della Cdu (Christlich Demokratische Union Deutschlands) di Hannover. È il 4 dicembre del 2007 e la cancelliera è a metà del suo primo mandato, dopo la vittoria all’ultimo voto di due anni prima contro il cancelliere uscente Gerhard Schröder. «Cari amici, il centro è qui, e qui al centro ci siamo solo noi», esordisce Merkel, chiamando il primo di molti applausi. È una scelta che suona beffarda agli occhi dei rivali dell’Spd (Sozialdemokratische Partei Deutschlands), temporaneamente alleati nella prima delle tre Grosse Koalition che governeranno la Germania nei successivi sedici anni. Era stato lo stesso Schröder, quando lui e Tony Blair erano i fautori della Terza Via in Europa, a definire il proprio partito Neue Mitte, il nuovo centro. Quel giorno i delegati applaudono Merkel perché lei ha riconquistato il centro, ma soprattutto perché hanno capito che nessuno meglio di lei è capace di presidiare quello spazio.
Henry Kissinger, uno dei più grandi osservatori della politica mondiale, ha detto che il successo e la longevità politica di Angela Merkel sono tali per la sua capacità di essere «la perfetta espressione del suo tempo», per il suo talento assoluto nel sapersi trovare al centro della società in cui vive e nel corrisponderle perfettamente. Difficile dargli torto. Angela è stata una giovane comunista nella Germania Est per avere accesso alle migliori scuole e a una cattedra universitaria. È stata una scienziata mentre il regime collassava su se stesso perché la politica stava lontana dal mondo della ricerca. È assurta a protagonista della vita politica immediatamente dopo la caduta del Muro. Si è presa la Cdu appena Helmut Kohl, il suo mentore, è caduto in disgrazia. Non si è candidata quando sapeva che avrebbe perso e ha vinto le successive quattro elezioni federali. È diventata l’interprete più autorevole della politica europea, lei che europeista non si era mai professata fino in fondo, quando l’Europa necessitava di un leader in grado di farsene carico. Ha abbandonato il nucleare in Germania dopo lo tsunami in Giappone e l’incidente della centrale di Fukushima, nonostante avesse combattuto da ministro dell’Energia per difendere le centrali. Ha dato il via al Quantitative Easing di Mario Draghi dopo aver detto che la Banca centrale europea, per acquistare titoli di Stato in cambio di stimoli monetari, avrebbe dovuto passare sul suo cadavere. Ha aperto le porte ai profughi siriani solo pochi giorni dopo aver detto a una bambina palestinese in lacrime che il suo Paese non avrebbe potuto accogliere chiunque ne avesse fatto richiesta. E ha sottoscritto personalmente l’accordo con la Turchia di Erdog ̆an per chiudere la frontiera turca quando si è accorta che il massiccio afflusso di persone provenienti dal Medio Oriente poteva far collassare su se stesso il progetto europeo. Ogni volta, anche contraddicendosi, è stata il centro di gravità della politica tedesca e continentale. E ogni volta ha detto l’ultima parola su qualunque decisione dovesse essere presa.
Non basta questo, tuttavia, per definire Angela Merkel. Fu Tony Blair a dire che quella strana tedesca dell’Est, luterana e divorziata, che guidava i democratici cristiani cattolici in gran parte occidentali, era un’intrusa nel suo stesso partito e nella sua nazione. Wessi, occidentale, nella Germania dell’Est. Figlia di un pastore protestante in un Paese comunista. Ossi, orientale, nella nuova Germania unita. Donna nella politica tedesca maschilista della fine del secolo scorso. Divorziata e senza figli in un partito cristiano-democratico. Sempre apparentemente fuori posto. Sempre centrale.
È una storia che non sarebbe nemmeno cominciata, quella di Angela Dorothea Kasner, se suo padre Horst, un pastore luterano, non avesse deciso di lasciare Amburgo per trasferirsi a Templin, un piccolo e suggestivo borgo nelle foreste di pini del Brandeburgo, a nord di Berlino. Le origini della famiglia, peraltro, erano ancora più orientali. Ludwig Kazmierczak, il nonno di Angela, era nato nel 1896 a Poznán, quando la città era ancora parte del Reich. Fieramente tedesco, nonno Ludwig emigrò a Berlino quando, dopo la prima guerra mondiale, Poznán tornò a far parte della Polonia. Fu lui, sotto il nazismo, a tagliare i ponti con le sue origini polacche, chiedendo come molti altri la germanizzazione del proprio cognome. Non pago, rinnegò il cattolicesimo e si convertì alla chiesa protestante: un evento che evidentemente toccò nel profondo suo figlio Horst, che scelse di diventare pastore luterano, e che fu taciuto ad Angela, la quale scoprì della conversione del nonno quando già era cancelliera, non senza rimanerne scioccata.
Angela Dorothea crebbe nella canonica del seminario di Waldhof, trenta edifici appartenenti alla chiesa luterana che ospitavano diverse centinaia di disabili fisici e mentali cui veniva insegnato un mestiere. Niente di bucolico, in realtà. Sebbene la chiesa luterana fosse una delle poche istituzioni indipendenti dal Partito comunista cui era consentito di operare nella Ddr, Waldhof era una specie di campo di prigionia, con sessanta uomini stipati in una sola stanza e senza alcun mobile tranne le culle per i bambini. Una volta Merkel ha raccontato di aver visto alcuni residenti legati alle panchine, ma non è l’unico ricordo triste della sua infanzia. Diversi biografi riferiscono dell’infelicità di sua madre Herlind, un’insegnante d’inglese innamorata della sua professione e soggiogata dalla personalità del marito. Nonostante in Germania Est ci fosse un’enorme carenza di insegnanti d’inglese, non riuscì mai a trovare un lavoro.
Dalla madre e dalla sua storia Angela imparò molte cose, nel bene e nel male: ad amare l’istruzione e l’insegnamento; a non farsi mettere mai i piedi in testa da un uomo; a non restare per forza accanto a un marito che non avesse amato. Dalla rassegnazione della madre apprese anche che per una donna wessi, in Germania Est, non era per nulla semplice trovare lavoro, e che di conseguenza era importante studiare senza alcuna concessione alle frivolezze, ai flirt e ai vestiti alla moda. In terza media fu scelta per competere nelle olimpiadi di lingua russa della Germania dell’Est. Vinse a tutti i livelli, dalla gara scolastica a quella nazionale, per tre anni di seguito. L’unico difetto? Era troppo seria. Quando gli studenti si esercitavano nel suo minuscolo ufficio, l’insegnante doveva spesso esortare la sua allieva prodigio a tenere lo sguardo alto, a sorridere e a essere più amichevole. Qualcuno fu un po’ meno gentile: un ex compagno di classe, commentando il suo look privo di colori e la sua pettinatura «che sembrava una scodella», la nominò membro onorario del Club delle Mai Baciate. Un eufemismo: in realtà usò esattamente il medesimo epiteto che fu attribuito a Silvio Berlusconi decenni dopo, e mal gliene incolse quando, da capo della polizia di Templin, si ritrovò quel commento sulla cancelliera messo nero su bianco in un articolo di giornale. «Le sue armi erano intelligenza, volontà e potere» ricorda uno storico assistente politico di Merkel parlando degli anni di Templin. E quando non bastavano, ci aggiungeva una discreta dose di pragmatismo.
Mentre le cronache ce la raccontano iscritta alla Freie Deutsche Jugend (Fdj), l’organizzazione giovanile del Partito comunista della Ddr, in cui era addirittura leader dell’Agitprop, gli amici, al contrario, la ricordano sempre critica nei confronti del comunismo tedesco e molto interessata, nei primi anni Ottanta, a Solidarnos ́c ́ e alle manifestazioni sindacali in Polonia. Una scelta inevitabile. «Settanta per cento opportunismo», ammise lei in un’intervista: senza aderire alla Fdj sarebbe stato impossibile entrare in un liceo o all’università. E lei, Angela Dorothea, voleva diventare una scienziata, una fisica: «Per non dover fare troppi compromessi», ma soprattutto perché «con la fisica non si può cambiare così facilmente la verità».
«Proprietà vibrazionali degli idrossili superficiali: calcoli di modelli non empirici comprendenti anarmonicità»: è questo il titolo di una ricerca di cui Angela Merkel è stata coautrice all’Accademia delle scienze della Germania Est, unica donna a lavorare nella sezione di chimica teorica di quel tetro centro di ricerca situato di fronte a una caserma della Stasi, nella zona a sud-est di Berlino. Ma non è per ricerche di questo tipo, né per le sue idee politiche, che nel 1981 la Stasi comincia a interessarsi a lei. A incuriosire gli spioni sono le sue frequenti pause pranzo nell’ufficio di un collega, un fisico teorico di nome Joachim Sauer, di cinque anni più vecchio di lei. Piccolo dettaglio: entrambi sono sposati. Joachim da oltre un decennio, con due figli già adolescenti. Angela dal 1977, con un uomo di nome Ulrich Merkel, da cui prenderà il cognome per non cambiarlo più. Entrambi divorziano, lei nel 1982, lui nel 1985. Da quel momento saranno inseparabili, nella ricerca e nella vita.
La politica entra nella vita di Angela Merkel senza far rumore. La mattina, per esempio, quando prende la S-Bahn da Prenzlauer Berg, nel centro città, dove si trova il suo appartamento, sino all’Accademia delle scienze: per diversi tratti il treno costeggia il Muro e ad Angela sembra quasi di poter toccare i tetti di Berlino Ovest. O ancora quando si lamenta dell’impossibilità di accedere alle pubblicazioni degli scienziati e delle università occidentali. O quando, guardando Gorbaciov alla televisione, si ritrova ad ammettere ad alta voce che le piacerebbe vivere dall’altra parte del Muro. O ancora, pochi mesi prima del 9 novembre 1989, quando comincia a prendere contatti con alcuni gruppi di dissidenti cristiani, tra i quali il pastore protestante Rainer Eppelmann, che sarà ministro della Difesa e del disarmo nella sua ultima cancelleria. O, infine, quando lei e la madre si promettono a vicenda che, se il Muro cadrà, andranno insieme a mangiare ostriche al Kempinski, un lussuoso hotel a Ovest che nessuna delle due ha mai visto.
È così che si salutano anche il pomeriggio del 9 novembre, quando Angela commenta insieme alla madre la conferenza stampa di Günter Schabowski, ministro della Propaganda della Repubblica Democratica Tedesca. In quella stringata comunicazione, Schabowski aveva parlato delle nuove regole di viaggio predisposte dal governo della Ddr. In pratica, spiegava, ogni berlinese dell’Est avrebbe potuto richiedere un permesso per attraversare il Muro. Era stata una decisione presa in tutta fretta dal neopresidente Egon Krenz, che aveva sostituito meno di un mese prima lo storico leader della Germania comunista Eric Honecker. «Se sono stato informato correttamente, quest’ordine diventa efficace immediatamente», aveva detto Schabowski. Ma quel giorno era giovedì e Angela aveva in programma, come al solito, una sauna con un’amica.
Quella sera Angela finisce a bere birra a Berlino Ovest ospite di sconosciuti che hanno aperto le porte delle loro case ai cittadini dell’Est semplicemente per festeggiare la riunificazione della città. Un mese dopo lavora come addetta stampa di Risveglio democratico, la piattaforma politica di Rainer Eppelmann, poi diventa portavoce di Lothar de Maizière, il primo e ultimo presidente democraticamente eletto della Repubblica Democratica Tedesca, il 12 aprile 1990. Pochi mesi più tardi si prende il collegio del Meclenburgo-Pomerania lasciato libero proprio da de Maizière, che si scopre essere stato un informatore della Stasi. A dicembre del 1990, tredici mesi dopo la caduta del Muro, siede già nel Bundestag e il 18 gennaio del 1991 è nominata ministro delle Donne e della gioventù del terzo governo Kohl. Verso quel centro che non abbandonerà mai più. Perché in fondo, semplicemente, il centro è lei.