Vernon Bogdanor del King’s College di Londra ha scritto che «la Brexit sta spingendo la costituzione ai suoi limiti, per questo ne serve una nuova scritta, altrimenti si rischia la distruzione». Per esempio, l’ultima volta che un premier o un sovrano d’oltremanica si è opposto duramente al Parlamento, sospendendolo in maniera così brutale, fu Carlo I, che per questo fece esplodere la guerra civile inglese nel 1642, per poi essere decapitato dai suoi oppositori nel 1649.
Andrew Rawnsley, storico commentatore dell’Observer, aveva scritto che una cosa simile avrebbe fatto precipitare il Paese nella «più oscura crisi della nostra storia recente».
L’ex premier John Major, uno che tra l’altro ce l’ha con Johnson da quando quest’ultimo era corrispondente da Bruxelles negli anni Novanta e gli aizzava contro gli euroscettici del partito conservatore, ha portato Boris davanti alla Corte Suprema per la sospensione del Parlamento, vincendo la causa insieme all’attivista Gina Miller il 24 settembre. Anche questo è qualcosa che un ex premier non aveva mai fatto prima.
Johnson, attraverso i suoi collaboratori più loquaci con i giornalisti, ha persino minacciato di non lasciare Downing Street anche se venisse sfiduciato dal Parlamento, cosa che nel Regno Unito dopo il 1945 è capitata una sola volta, il 28 marzo 1979, a Jim Callaghan e alla sua malaticcia maggioranza laburista affondata per un voto da una mozione di Margaret Thatcher. O perlomeno, Johnson non uscirebbe subito di scena, sgranocchiando così qualche giorno in più al calendario parlamentare britannico e rimuovendo ogni ostacolo alla Brexit dura teoricamente fissata al 1° novembre.
Qui risiede l’incredibile paradosso. Curiosamente, anche dopo un voto di sfiducia, non c’è scritto esplicitamente da alcuna parte nella «matassa costituzionale» britannica che il premier debba dimettersi. Sinora, il capo del governo sfiduciato lo ha sempre fatto. Ma se Johnson decidesse di non farlo dopo aver indetto le elezioni? In teoria, nessuna legge glielo imporrebbe. L’unica che potrebbe costringerlo ad andarsene sarebbe la regina. Ma, paradosso del paradosso, secondo un’altra storica convenzione non scritta, il sovrano non è mai intervenuto in questo modo nella scelta del capo del governo, così come per convenzione non respinge mai le leggi del Parlamento, anche se in teoria in qualche codicillo questo potere le viene attribuito. Un effetto domino che, convenzione dopo convenzione, potrebbe erodere i pilastri della democrazia britannica come l’abbiamo conosciuta sinora e farla assomigliare sempre di più a un parlamento di scimpanzé, come nella celebre opera del misterioso e visionario artista di strada inglese Banksy.
«La Brexit sta spingendo la costituzione ai suoi limiti, per questo ne serve una nuova scritta, altrimenti si rischia la distruzione»
Ogni giorno i vari costituzionalisti esprimono un’idea spesso tra loro diversa sui vari dilemmi che ultimamente pone il comportamento di Johnson, proprio perché ogni norma o convenzione può essere interpretata o, peggio, smentita: lo stesso speaker della Camera John Bercow, qualche settimana prima di rifarsi all’Erksine May, aveva infranto una tradizione, e cioè aveva concesso all’opposizione la facoltà di dettare l’agenda parlamentare e le votazioni delle leggi, cosa convenzionalmente riservata solo all’esecutivo. Anche qui, le varie scartoffie costituzionali spesso non stabiliscono con precisione chi abbia maggiore influenza tra Parlamento e governo, e quindi il presidente della Camera dei Comuni ha un potere quasi assoluto nel favorire l’uno o l’altro organismo.
È anche vero che l’attuale costituzione britannica, sviluppatasi soprattutto dall’Act of Union del 1707 che ha unito Inghilterra, Galles e Scozia (e poi successivamente l’intera isola d’Irlanda nel 1808), è estremamente flessibile. E sinora, in questi 300 anni senza guerre civili né colpi di Stato (a parte la questione irlandese), ciò è stato sicuramente un pregio, a differenza della «vetocrazia» generata, secondo il grande storico statunitense Francis Fukuyama, dalla rigida costituzione americana. Ma secondo l’Economist del 30 maggio 2019, questa è solo una tragica illusione: la furia della Brexit ha ormai posto «dei candelotti di dinamite costituzionale sotto il Regno Unito e ora», qualsiasi cosa accada, «è molto difficile che possano essere disinnescati».
«È molto probabile» continua il settimanale britannico in uno dei suoi tipici articoli non firmati, «che la costituzione britannica, sinora reputata adattabile ma allo stesso tempo robusta, amplificherà invece il caos, le divisioni e la minaccia all’unità» del Regno Unito, «scandalosamente impreparato», come abbiamo visto in precedenza.
Sembrano esagerazioni, ma evidentemente non lo sono. Nell’agosto 2019, Chris Patten, ultimo governatore britannico di Hong Kong e uno dei più importanti diplomatici e politici oltremanica, ha scritto un editoriale dal possente titolo: Il Regno Unito sta diventando uno Stato fallito?. Stato fallito. Come se fosse un Paese disastrato come la Somalia. Ma secondo lord Patten questo paragone è azzeccato: «I failed States sono spesso stati una caratteristica del mondo in via di sviluppo, dove le istituzioni non hanno radici profonde. Ma, vista la gravità dei danni alle istituzioni britanniche causata dalle bugie della Brexit, è giusto preoccuparsi: il nostro Paese potrebbe presto ridursi a una dittatura da quattro soldi».
da: Il popolo contro il popolo. Perché dopo la Brexit la democrazia e L’Europa non saranno più le stesse , di Antonello Guerrera, Rizzoli (2019)