Senza una politica comune sull’Intelligenza Artificiale l’Europa sarà il vaso di coccio tra Usa e Cina

È questo il campo in cui si giocherà la partita per la leadership globale, messa in discussione per la prima volta dalla caduta dell’Urss. Pechino mira ad acquisire il primato entro il 2030, mentre tra Parigi e Berlino crescono gli allarmi ma gli investimenti latitano

Mark RALSTON / AFP

Il 25 aprile 2018, mentre in Italia si festeggiava come di consueto la Festa della Liberazione, la Commissione Europea pubblicava sotto forma di Comunicazione la propria strategia sull’AI, rispondendo alle sollecitazioni del Parlamento europeo e del Consiglio, ma soprattutto alle mosse degli altri Paesi leader, a partire dagli USA e dalla Cina. Come testimoniato dalle parole usate e dalle azioni di policy previste nei rispettivi documenti strategici, l’intento era quello di affrancarsi dal crescente dominio tecnologico delle due superpotenze.

Gli Stati Uniti avevano pubblicato una prima strategia quasi due anni prima, nell’ottobre del 2016. Giunto a poche settimane dalla fine del suo mandato, il documento dell’amministrazione Obama aveva un valore poco più che simbolico. Tanto che fu subito riposto nel cassetto dal neopresidente Trump, che anzi alla prima occasione ci tenne a sforbiciare le spese per la ricerca sull’AI stanziate dal suo predecessore. Salvo poi tornare più tardi sui suoi passi, preoccupato soprattutto dall’ascesa tecnologica cinese, con diversi provvedimenti culminati nell’executive order dell’11 febbraio 2019, evocativamente intitolato “Maintaining American Leadership in Artificial Intelligence”.

Una leadership che in effetti la Cina si era già candidata a strappare, visto che nel giugno 2017 a Pechino il Consiglio di Stato, principale organo amministrativo del Paese, presieduto dal primo ministro, licenziava le Linee guida per un piano di sviluppo dell’AI di nuova generazione, fissando l’obiettivo per l’economia cinese di essere nel gruppo di testa dei Paesi leader nell’AI entro il 2020, sviluppare innovazioni radicali entro il 2025 e conquistare la leadership mondiale entro il 2030. Un vasto e ambizioso programma, insomma.

Che evidentemente non è passato inosservato a Bruxelles ma soprattutto in alcune delle capitali europee, a partire da Berlino, Londra e Parigi. Non a caso, a parte l’ipertecnologica Finlandia, Francia e Regno Unito sono stati tra i primi Paesi ad adottare strategie nazionali sull’AI, precedendo l’azione della Commissione Europea. Ma non solo. A enfatizzare l’importanza del tema per la Francia, la strategia è stata presentata in un evento al Collegio di Francia tenutosi il 29 marzo 2018 alla presenza dello stesso presidente della Repubblica, Emmanuel Macron. E Angela Merkel non è stata da meno, iniziando a parlare sempre più frequentemente della rilevanza strategica per la Germania e l’Europa dell’AI. Specie da quando KUKA, venerata azienda tedesca fondata nel lontano 1898 ad Augusta e oggi una delle principali aziende europee di robotica con più di 2 miliardi di dollari di fatturato annuali, è stata acquistata dalla cinese Midea Group. Un annuncio shock – quello arrivato il penultimo giorno del 2016 – per l’establishment e l’opinione pubblica tedesca, che fino ad allora avevano visto nella Cina principalmente un importante mercato di sbocco per il proprio export, non certo un vero rivale nei settori tecnologici di punta.

Dunque, anche sulla spinta proveniente dagli Stati membri più influenti, nella sua Comunicazione dell’aprile 2018 la Commissione Europea ha posto al primo punto l’esigenza di assicurare la competitività dell’Europa nel panorama AI, prevedendo un aumento delle risorse comunitarie del 70% nel triennio 2018-2020 rispetto a quello precedente e innescando un’azione coordinata degli Stati membri e del settore privato per raggiungere una cifra complessiva di 20 miliardi di euro di investimenti annui entro la fine del 2020.

Un obiettivo ambizioso, visto che nel 2016, secondo i calcoli del McKinsey Global Institute, gli investimenti privati in AI in Europa erano stimati in una forchetta compresa tra i 2,4 e i 3,2 miliardi di euro, contro i 6,5-9,7 miliardi dell’Asia e i 12,1-18,6 miliardi dell’America del Nord. Se le aziende statunitensi e asiatiche, e in particolare le big tech, sono le grandi protagoniste degli investimenti in AI, quando invece in Europa l’unica tech company che capitalizza più di 100 miliardi di dollari è la tedesca SAP (ma molto distante dai piani alti della classifica), di certo la situazione non assume sfumature più rosee se si guarda al settore pubblico, considerando i forti investimenti dello Stato cinese (e soprattutto delle sue ramificazioni territoriali) ma anche degli stessi Usa.

Si pensi al ruolo della DARPA (Defense Advanced Research Project Agency), l’agenzia del Pentagono fondata per portare avanti progetti innovativi con tempi di ritorno pluridecennali, nata nel 1958, l’anno successivo al lancio dello Sputnik da parte dell’Unione Sovietica. Forse l’ultimo episodio di grande rilevanza collettiva nel quale la superiorità tecnologica degli Stati Uniti fu messa in discussione da una potenza rivale. E non è certo casuale che da oltre un decennio una parte importante del budget della DARPA (nell’anno fiscale 2019 pari a 3,4 miliardi di dollari) sia stato destinato a tecnologie legate all’AI. Da sottolineare il ruolo svolto per esempio nello stimolare la guida autonoma attraverso ripetute challenge, vere e proprie gare competitive per risolvere un problema sulla frontiera tecnologica con tanto di premio per il vincitore.

Gli elevati investimenti non sono da soli una prova inequivocabile dell’eventuale gap tecnologico dell’Europa nei confronti di USA, Cina e altri Paesi asiatici. Anche se certamente rappresentano le prime importanti fondamenta delle innovazioni tecnologiche del futuro

Nel settembre 2018, la DARPA ha annunciato un investimento pluriennale di più di 2 miliardi di dollari nell’AI, sotto il nome di AI Next Campaign. Una componente chiave della campagna è il programma Artificial Intelligence Exploration (AIE), costituito da progetti ad alto rischio di insuccesso ma con elevato payoff nei quali ai ricercatori supportati finanziariamente dall’agenzia viene chiesto di stabilire entro diciotto mesi la fattibilità di nuovi concetti di AI. Un tentativo di compromesso tra le virtù della ricerca di base (che non può dare ritorni immediati) e la necessità di evitare sprechi di risorse su filoni a minore potenziale per concentrarle su quelli con aspettative migliori di successo.

Se negli Stati Uniti la DARPA non è l’unica agenzia governativa a investire nell’AI, di certo non sono da meno le istituzioni pubbliche cinesi, lo Stato centrale ma anche province e municipi, che stanno facendo a gara per attrarre startup e incubatori (di questi ultimi ne sono stati creati ben 6.600 dal 2015 al 2018). Basti pensare che a fronte degli 1,5 miliardi di euro che la Commissione europea ha deciso di investire per il triennio 2018-2020, la Cina sta spendendo 2,1 miliardi di dollari solo per un parco tecnologico dedicato all’AI nella periferia di Pechino.

Naturalmente, gli elevati investimenti non sono da soli una prova inequivocabile dell’eventuale gap tecnologico dell’Europa nei confronti di USA, Cina e altri Paesi asiatici. Anche se certamente rappresentano le prime importanti fondamenta delle innovazioni tecnologiche del futuro.

Ma se guardiamo ai risultati delle spese in R&S del recente passato, il quadro per il vecchio continente appare già oggi tutt’altro che esaltante, lasciando presagire tempi futuri ancora più difficili, in mancanza di una terapia d’urto. Anche se è pur vero che le statistiche sull’AI sono tutt’altro che precise. Se già è difficile comparare indicatori economici complessi tra diverse aree del pianeta, è impresa ben più difficile farlo su una tecnologia orizzontale come l’AI. Non esiste infatti una categoria merceologica che vada sotto questo nome. Dunque, occorre fidarsi in molti casi delle autodichiarazioni di chi sta presentando un brevetto o lanciando sul mercato una startup.

Tenendo a mente che tutti i filoni di moda come l’AI attraggono molta attenzione e dunque potrebbero generare fenomeni di autopromozione, al fine di beneficiare dell’hype che si crea intorno a una tecnologia sulla cresta dell’onda. In ogni caso, i dati a disposizione, opportunamente letti e interpretati, convergono nel dipingere una situazione europea discreta ma in relativo declino nelle pubblicazioni scientifiche, piuttosto critica nei brevetti e nelle attività delle imprese, ricca nella quantità delle startup ma con poche eccellenze e scarso fundraising.

da Intelligenza Artificiale: ultima chiamata. Il sistema Italia alla prova del futuro, di Stefano da Empoli, edito da Bocconi Editore

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