La chiamano la “malattia degli invisibili”. È la sindrome feto-alcolica (o Fas), una disabilità che colpisce i bambini figli di madri alcoldipendenti, rientrante nel “termine ombrello” di disturbi dello spettro feto alcolico (Fasd), che comprende anche altre patologie: la sindrome feto alcolica parziale (pFas), difetti congeniti associati all’alcol (Arbd) e, infine, disturbi dello sviluppo neurologico associati all’alcol (Arnd). Al di là dei casi più gravi, di donne che hanno sviluppato una dipendenza, anche un consumo in piccole dosi espone il feto al rischio di sviluppare questa sindrome.
E Simone (nome di fantasia), figlio adottivo di Francesca (nome di fantasia), è oggi un adolescente affetto da una malattia, considerata invisibile. Dietro la sua storia, costellata di difficoltà quotidiane, c’è quella della sua famiglia adottiva. Che da sette anni, quando Simone è arrivato in Italia aveva appena 18 anni, è alla ricerca di risposte e di una strada per consentirgli di vivere una vita il più possibile normale. «All’inizio, tranne il fatto che non avesse voglia di studiare, che avesse qualche difficoltà di linguaggio, non avevamo alcun sospetto. I dubbi sono arrivati quando abbiamo deciso di mandarlo a scuola, abbiamo provato a fargli prendere un diploma ma non c’è stato verso e ci siamo dovuti accontentare di una terza media col serale», racconta la madre. Simone non sa compiere gesti che non siano meccanici e ripetitivi. Non ha nessuna percezione dello spazio e del trascorrere del tempo. «Pensavo che i problemi di Simone fossero di natura mentale, ma non ho mai pensato prima che si potesse trattare di una disabilità che Simone si portava dietro perché la mamma biologica era alcoldipendente».
Come la Fas, anche le altre forme parziali di Fasd, sono ancora poco conosciute e studiate. In Italia, stando ai dati dell’Istituto Nazionale di Statistica – su 450mila bambini nati nel 2018, circa 3,6mila sono affetti da Fas, 16mila da Fas parziale, mentre oltre 20mila da disturbi dello spettro feto alcolico (Fasd). Riconosciuta dal Sistema Sanitario Nazionale come una malattia rara, la Fas «per la sua diffusione, non dovrebbe essere trattata come tale». A dirlo è la dottoressa Simona Pichini dell’Osservatorio Fumo, Alcool e Droga dell’Istituto Superiore di Sanità. «Cresce però la coscienza di questa che più che una malattia – sostiene Pichini – è una disabilità. Finalmente anche in Italia s’inizia a parlarne».
«Il fatto che venga ancora oggi trattata come una malattia rara è dovuto alla scarsità degli studi fatti nel nostro Paese», continua. Sebbene esistano delle linee guida americane ed europee che consentano di riconoscere i segni della sindrome già nei primi anni di vita del bambino, il problema che si è posto in Italia è che ancora oggi non ci sono medici a conoscenza di tali schemi diagnostici. Questo deficit ha portato a marginalizzare il fenomeno. A nasconderlo come si fa con la polvere sotto il tappeto. Così questa sindrome rischia di rimanere sottostimata e sottovalutata, nonostante abbia un impatto sociale.
Mentre in Italia la stima dei casi resta ancora approssimativa, secondo la dottoressa Stefania Bazzo del comitato scientifico dell’Associazione Italiana Disordini da Esposizione da Alcool (Aidefad), in base agli studi dell’epidemiologo Giuseppe Battistella, si può per ora ipotizzare un costo sanitario complessivo che oscilla tra l’1,5 miliardi di euro e i 2,6 miliardi di euro. L’aggravio per il Servizio Sanitario Nazionale e per lo Stato c’è. E deriva dalle mancate diagnosi e da quelle fatte male. Perché per la Fas e le altre forme parziali, rientranti nel “termine ombrello” Fasd cè bisogno di competenze mediche che al momento in Italia mancano.
Nel corso della vita, le persone esposte da alcool in fase prenatale non solo sono soggetti a problemi di salute mentale, ma non riescono a vivere in autonomia. Hanno difficoltà con il lavoro, tanti hanno un’esperienza scolastica fallimentare, problemi con la legge – spesso finiscono in carcere o in isolamento – o hanno comportamenti sessuali inappropriati. O, a loro volta, sviluppano come i genitori biologici delle dipendenze.
La sindrome feto-alcolica è una disabilità poco conosciuta in Italia, le famiglie adottive si trovano impreparate quando tra i 12 e i 13 anni si manifestano nel bambino i primi sintomi della malattia
Il numero più alto di casi si registra nei Paesi dell’Est europeo, dove i bambini che spesso sono stati concepiti da madre e padre entrambi alcooldipendenti (e in alcuni casi anche tossicodipendenti) vengono sottratti ai genitori naturali per essere affidati prima a un orfanotrofio e poi adottati. In base ai dati diffusi dalla Commissione per le adozioni internazionali (Cai), dal 2000 al 2018, le adozioni in Italia sono state oltre 68mila. Migliaia di famiglie italiane hanno preso in affidamento minori provenienti da altri Paesi europei – si calcolano 1394 adozioni, circa il 46, 7% – molti dall’Est. L’età media d’ingresso è generalmente quattro, sei anni. In base a «uno studio condotto su 71 minori adottati da Paesi dell’Est Europa, questa malattia è stata identificata in un soggetto su due: nel 30 per cento dei casi si tratta di Fas completa, nel 14 di Fas parziale, mentre nel 9 per cento di Arnd», precisa Bazzo.
Ed è qui l’aspetto cruciale, perché questi bambini generalmente tendono a presentare i primi sintomi solo tra i 12 e i 13 anni. Riconosciuto quindi che «i bambini e gli adolescenti in situazioni di affido, adozione e o tutela sociale sono particolarmente soggetti ai rischi e agli effetti dell’uso di alcool in gravidanza, tanto che la probabilità che essi siano affetti da distrurbi dello spettro feto alcolico è tra le 10 e le 15 volte più alta – afferma – spesso non viene dato alcun peso al pericolo a cui sono stati esposti».
Come spiega la dottoressa Pichini, dal momento che non esiste una terapia risolutiva, la Fas deve essere trattata come una disabilità mentale permanente – il danno causato dall’abuso di alcool durante la gravidanza è infatti irreversibile – ci sono dei percorsi diagnostici, psicologici, comportamentali che possono però evitare le disabilità cosiddette secondarie. E quindi l’aggravarsi della sindrome. «Un ambiente più adeguato, a partire dalla scuola, che tenga conto delle difficoltà che questi bambini presentano, oltre a una terapia cognitivo-comportamentale mirata, a oggi sono le risposte più efficaci».
Ma, alla scarsa conoscenza, si aggiungono la legge italiana sulle adozioni che non permette alle famiglie affidatarie di fare ricerche sul passato del bambino adottato, almeno fino a quando non abbia compiuto i 25 anni, e tutte le difficoltà che queste sono costrette ad affrontare quando troppo tardi si presentano i primi sintomi della malattia. «Per questo, anche se non si può guarire dalla Fas – sottolinea Bazzo – c’è bisogno di sostenere l’informazione e la formazione tra i professionisti sanitari, sociali e scolastici. Anche la sensibilizzazione della popolazione in età fertile, la diagnosi e il sostegno (riabilitativo, educativo, sociale…) possono aiutare a migliorare la vita di queste persone».
È indubbio allora, che serve dare la possibilità alle famiglie in affidamento o che decidono di adottare di sapere ciò a cui vanno incontro. Non solo, è necessario che lo Stato s’impegni in prima persona per dare loro un sostegno. Per evitare che questi bambini e adolescenti e i loro familiari siano costretti a vivere da “invisibili”.