MonologrammiLo scrittore, un cacciatore alla ricerca della sua preda: le parole

La rubrica neopassatista e veterofuturista di Pasquale Panella

Scrivo parole ossia faccio l’uomo preistorico davanti alla pietra levigata, la superficie, lo schermo, da lasciarci su il segno.

Preistorico perché tutto questo avviene prima di scrivere storie, che poi nemmeno scrivo. Scrivo parole.

Imparo dal mio cane, davanti a noi il terreno di caccia, la terra, la fanga, le erbe alte e basse, l’acquitrino, la boscaglia, la preda. Annusiamo, fiutiamo il sentore della parola, equivochiamo, perché la parola è un rumore, un suono, anche un fischio, uno schiocco, uno strappo, uno spacco, un frondìo, un erbùscio, un bestiàglio, che ci paiono e li facciamo parere parole, ascoltiamo l’afrore, sentiamo il rumore col naso, quell’odore di petto piumato, acre e dolce, o peloso, pungente e soave.

In natura tutto è doppio e contraddittorio per i nostri sensi, tutto è amabile e brutale. Così è, sennò stai fingendo.

Sono il cane, adesso so dove sono acquattate le parole, mi slancio. Le parole prendono il volo, forano l’intrico, possono anche sfuggirmi.

Sono l’uomo, le colpisco con la freccia intuitiva, stramazzano sulla pagina, le compongo come si dice comporre una spoglia, le prendo per il becco, il muso, le recchie, il titolo, le distendo con l’altra mano, una specie di carezza, paragrafi, strofe, la coda corta, la coda che si dilunga, un po’ di sangue, un po’ di più, l’occhio bagnato degli uccelli sparati, l’occhio offeso di bestie che non ti guardano più in faccia.

Alle volte sono prima l’uomo, poi sono il cane, quando gli uccelli volano alti, le allodole, per esempio, che fanno giri, o i tordi che appaiono con la fretta di sparire. Il cane mi porta la preda, si dice: riporta, perché il cane è la memoria.

È così, è preistoria, ai tempi del cane allevato. Davanti al focherello del nostro computer: sprazzi e fiammelle di tutti i colori, illuminazioni, caratteri acrobatici, apparsi, scomparsi, riapparsi, composti, stesi in spaccata come gambe di futuri Cancan. Le parole, allineate sul rigo, parole come gambe, cosce, bei polpacci, le intimità della punteggiatura intravista.

Tocco con le dita tasti che sono ossicini lanciati, fanno questo rumore di ossa. Sono le ossa della mano? È dimostrato: le ossa della mano sono dello stesso numero dei tasti di un computer (ma di quale gioco siamo parte del gioco?).

Pratichiamo anche la caccia a bestie più grandi e bestioni, che fanno versi terribili e rumori pesanti, e sollevano zolle di terra correndo, e nuvole di sabbia, di polvere, con le zampate, e anche col respiro, il muso a terra, quando colpiti esalano, meravigliati che la natura si sia ribaltata di colpo.

Sono veramente così venatorio? Sì. Come Turgenev dopo l’ultima sparata, perché la caccia è la caccia, la scrittura è pentimento. Cacciare è creare la storia delle vittime.

Sono l’uomo e il cane. La mia cagna, che sta con me, in me scorrazza e si svaga, mi dà il tempo, il ritmo, mi fa andare a capo: il metronomo dei suoi scodinzolii. Mi fa continuare: la sua andatura, il suo fiuto, le sue orme, l’abbaio, lo sbadiglio, l’ampia lingua estesa, spalmata sul muso nettando anche i baffi per darmi la visione di un bel verbo: ‘forbire’. Un guaito, ho finito. Dormi, Musa.

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