Non è (solo) questione di brand. Non è (più) questione di franchising.
L’industria della ristorazione oggi è sempre più su misura e prescinde dal marchio, per concentrarsi sul prodotto.
L’antesignano milanese è stato sicuramente Giacomo. Il signor Bulleri, recentemente scomparso, è stato l’apripista di un nuovo modello di ristorazione meneghina. Dopo il successo del suo storico locale, invece di aprirne un secondo, ha colonizzato via Sottocorno, duplicando la qualità ma non il modello principale.
Sono arrivati così il bistrot, poi la pasticceria, il caffè, la tabaccheria e la rosticceria, oltre allo scenografico ristorante all’Arengario. Tutti luoghi con lo stesso imprinting, in questo caso legati dallo stesso nome, ma con anime diverse e capaci di intercettare differenti target.
A farne un modello di business è stata qualche anno dopo Costanza Zanolini. All’inizio della hamburger-mania apre Ham Burger, ma dopo 2 anni, invece di scalare, decide di raddoppiare cambiando scelta gastronomica ma non format. Un ristorante piccolo, con pochi tavoli per un consumo veloce, un locale facilmente gestibile, senza orpelli ma con un’idea verticale. Arriva Maidò, ma ha l’intuizione: non sceglie un’altra zona ma sta sullo stesso marciapiedi dell’altro locale, tanto vicino da permettere a chi vuole una frittata giapponese in un momento di punta da Maidò, di sedersi ai tavoli di Ham burger e viceversa. Facile e vincente: camerieri, lavapiatti, tutto è intercambiabile e Costanza gestisce in un unico luogo fornitori e clienti.
Cambiano il cibo e il vestito, non il concept dell’organizzazione. Anzi, migliora, lavorando meglio sulla comunicazione di un prodotto molto lontano dalla nostra tradizione e dalle consuetudine giapponese
Cambiano il cibo e il vestito, non il concept dell’organizzazione. Anzi, migliora, lavorando meglio sulla comunicazione di un prodotto molto lontano dalla nostra tradizione e dalle consuetudine giapponese: Maidò propone una frittata nipponica celebre nel mondo dei manga, molto meno tra i fan della cucina giapponese di Milano. E dal raddoppio si passa al tris, con Amuse Bouche, panini da 30 g con ripieni ben costruiti. E così Costanza intercetta due tendenze: la verticalità monoprodotto e i panini sempre più golosi, ma in versione mignon, per dar modo di assaggiarne di diversi. Per il resto, non cambia nulla: il suo ufficio rimane a pochi passi dai tre locali e la gestione del tutto resta agile e snella.
Negli anni successivi Costanza ha finalmente lasciato la sua rassicurante via Savona, ha ceduto Ham e si è concentrata sullo sviluppo di Maidò, fino a sbarcare a Londra. Meno comoda, ma di sicuro più entusiasmante. Adesso sta per arrivare anche a Roma, trasformando quell’intuizione in un’impresa di successo. Nel frattempo, Amuse bouche è diventato un catering, che la ragazza segue sartorialmente e che presidia dalla sua storica via Savona, ormai diventata l’hub dell’impresa. Il mantra che segue è senza dubbio la personalizzazione: ogni progetto è stato modulato e ideato partendo da lei e dalle due idee, senza mai cedere alle mode scontate.
Tunde Pecsvari è di sicuro un altro caso di studio. Con il suo storico Bento bar, oggi chiuso, questa giovane donna nata sul lago Balaton ha fatto amare gli edamame e il sushi a Milano. Poi si è lanciata verso la cucina italiana tradizionale, con Osteria Brunello e si è dedicata in seguito al vero e proprio boom di Macha, che è diventato un format a sé e sta letteralmente spopolando. Il tè verde giapponese declinato a stile di vita, con un’immagine definita e un progetto stretto e decisamente verticale.
Lei è l’esempio dell’imprenditore del cibo, che moltiplica e scala, con giudizio e soprattutto con impostazione tecnica.
E se di queste due donne si parla poco e solo nell’ambiente, che le ritiene delle vere e proprie pioniere in un mondo al maschile, la ragazza d’oro dei ristoranti, celebrata anche dalla stampa, è senz’altro la tenacissima Ilaria Puddu.
A neanche 40 anni ha aperto una serie infinita di locali, che gestisce dall’ideazione alla realizzazione, fino ai turni del personale e alla comunicazione social: Ilaria è davvero una macchina da idee.
Perché dopo aver imparato tutto da Stefano Saturnino, proprietario di Panini Durini, è diventata sua socia e ha capito fin da subito di voler giocare a un gioco più complesso, ma di maggiore soddisfazione.
E dopo aver dettato la nuova via milanese della pizza con Marghe, che ha davvero cambiato il modo di scegliere questo piatto in città, e aver reso solido il suo sapere con le aperture a raffica di Pizzium, ha capito che il format va bene, ma se non è monobrand è meglio.
E ha aperto in rapidissima sequenza Gelsomina, Giolina, Locanda Carmelina, e l’ultimissimo, che sta dettando la nuova monomania gastronomica milanese: chihuahuatacos, i tacos con una marcia in più.
I punti di forza di Ilaria? Tenacissima, instacabile ma soprattutto poliedrica. Quando immagina un nuovo locale lo studia da tutti i punti di vista, cercando in giro per il mondo i mobili e le suppellettili,
I punti di forza di Ilaria? Tenacissima, instacabile ma soprattutto poliedrica. Quando immagina un nuovo locale lo studia da tutti i punti di vista, cercando in giro per il mondo i mobili e le suppellettili, usando pinterest come ispirazione: e non è un caso se i suoi locali sono sempre i più instagrammati e amati da blogger e influencer, che ne decretano il successo a pochi giorni dall’apertura. Naturalmente il cibo rimane al centro del progetto, ed è Ilaria stessa che si occupa della selezione del personale, dell’ideazione del menu e della ricerca certosina dei fornitori migliori.
Il principio chiave che la guida? La coerenza. Tutto è tematizzato alla perfezione, e il target è talmente ben focalizzato che è quasi il cliente a trovare il locale, e non viceversa.
Un altro esempio del successo di questo genere di sviluppo è quello del poker d’assi Ugo Fava, Stefano Cerveni, Marco Giorgi e Luca Miele, la squadra di successo di Terrazza Triennale – Osteria con Vista e Vista Darsena, che ha inventato per differenziare anche Gud, che chiamano proprio non-format: si declina in modo differente a seconda della location in cui si trova, versatile e capace di adattarsi a qualsiasi situazione, conferendo personalità al locale. Un concept unico declinato in cinque luoghi diversi, con cirasci all’Italiana, focacce farcite e cocktail.
Se ci spostiamo sull’etnico, la storia si ripete: alcune famiglie hanno praticamente monopolizzato l’offerta senza mai duplicare, ma differenziando. È il caso dei Liu (con Iyo, Gong, Ba, Aji), dei Mu Fish e Mu Dim Sum con il torinese Mu Bao e di Xiaobo Zhou, con Nishiki, 52 e Niwa a Como.
Ma non sono solo i ristoranti a seguire questa tendenza: anche il mondo della mixology si presta a cambi di forma ma non di proprietà.
Un esempio vivacissimo è Flavio Angiolillo, anima del MAG Cafè, dello speakeasy 1930, del bar più piccolo del mondo – il Backdoor 43, di Barba, che mixa cocktail a vinili e di Iter dedicato ai viaggi e alle esplorazioni. La sua grande professionalità è garanzia sufficiente, Angiolillo è un vero guru del settore, ma la vera arma è la differenziazione: non replica ma reinventa, e veste i suoi cocktail con idee sempre nuove, mettendo al centro l’esperienza del suo cliente.
Giovanni Ripoldi si è lanciato in un grande esperimento che ha ribaltato il modo di intendere la mixology, grazie alla collaborazione con l’eclettico Filippo Sisti: si chiama Talea e abbina cucina e cocktail
Sempre nel mondo dei cocktail, un altro che sperimenta senza porsi limiti è Giovanni Ripoldi. Dopo una carriera nel mondo delle software house ha ‘mollato tutto’ e si è dedicato a cocktail e cibo, aprendo prima il Pinch, cocktail bar da veri impallinati, poi Belé, un ristorante e cocktail bar con una brillante chef in cucina e una proposta gourmet, e si è poi lanciato in un grande esperimento che ha ribaltato il modo di intendere la mixology, grazie alla collaborazione con l’eclettico Filippo Sisti: si chiama Talea e abbina cucina e cocktail in un modo del tutto inconsueto. L’ultimo nato di chiama Pinch Out ed è ancora una formula nuova: la miscelazione si presta al team building e diventa un percorso di socializzazione e di confronto.
Il passato da manager di Ripoldi ha dato l’imprinting a tutta la proposta: al crescere del business cresce la solidità dell’impresa, portando l’imprenditorialità in un settore di solito gestito a livello familiare. Gestendo a livello centralizzato approccio, controllo, contabilità tutto è più semplice, avendo più locali è più facile dialogare con realtà e aziende strutturate, lasciando a chi deve lavorare sul campo la libertà di dedicarsi solo a ciò che sa fare meglio.
Il prodotto al centro, ma sempre declinato in modi e business che cambiano.
Perché la proposta ristorativa che funziona è differenziata, ma sinergica. E cerca sempre nuove strade per coltivare l’unicità.