La strana uccisione del “martire fascista” a Nova Gorica, raccontata da Adriano Sofri

Una vicenda quasi dimenticata, avvenuta durante il Ventennio lungo la frontiera tra Italia e Slovenia. Un giallo storico che rivela un contesto politico e ideologico rimasto sottotraccia

Arrivo a Gorizia che è quasi sera. Ho nomi di amici ma non li ho ancora cercati. Prendo la mia stanza d’albergo ed esco a camminare a vanvera. Rinunzio alla famosa piazza della Transalpina, la vedrò domani, alla luce del giorno. Arrivo alla piazza della Vittoria, in alto c’è il Castello. Poi vado avanti fino a un passaggio a livello smesso, alzo la testa e vedo un cartello giallo, neanche grande, che dice Nova Gorica. Ho attraversato il confine e non me ne sono accorto. Allora faccio come si fa in questi casi: vado avanti e indietro sulla linea del confine, che qui non è segnata nemmeno alla memoria. Come l’allumeur de réverbères del piccolo principe: Bonjour, Bonsoir. Slovenia, Italia. Tante volte, tutte le volte che voglio. Sarebbe bello essere in due, uno di qua e una di là, stranieri da un passo. Ho invaso la Slovenia, a piedi, al buio, più volte, e altrettante evaso. Sarebbe il gioco di un vecchio scemo se non si progettassero e davvero si drizzassero reticolati e muri, dopo che l’abbattimento di un Muro appena trent’anni fa aveva immaginato di segnare la fine della storia.

La via che si chiamava San Gabriele fin qua, ora si chiama Erjavčeva ulica e si allarga, ai lati ha giardini alberati e caseggiati, e busti di persone illustri. Uno è di Engelbert Besednjak. Besednjak, 1894-1968, deputato alla Camera, a Roma, dal 1924 al 1929, aveva pronunciato discorsi memorabili per audacia e vigore contro la cancellazione dell’identità delle minoranze, la sua, slovena e croata, e le altre. Divenne famoso il suo monito del 13 maggio 1926: «Abolite le nostre scuole e destituiti i maestri, ogni famiglia si trasformerà in una scuola, e tutti, madri e padri di famiglia, diverranno maestri che tramanderanno di generazione in generazione la nostra lingua (Interruzioni) e la coscienza della stirpe». Chissà se ci sia per lui un monumento anche di qua, in Italia.

Vado avanti ancora un po’, il viale è deserto, c’è una falce di luna, arrivo a una gran piazza costeggiata da imponenti edifici pubblici, svolto verso un Park Casinò luccicante sulla destra. È passata mezzanotte, sono stanco, entro a chiedere di un taxi. Mi accompagnano a lato dell’hotel da un gruppo di signori che giocano a carte sotto una tettoia. Si consultano su chi abbia voglia di interrompere per rimpatriarmi – tragitto da poco. Tocca a un Mišo, che ha una bella auto. Mi sopravvaluta, chiede com’è andata stasera. Ho perso tutto, dico, mi resta appena da pagare il taxi. Va così, dice, una sera si perde una sera si vince. Mi faccio lasciare in centro, e vado ancora un po’ in giro alla rinfusa. Cedo alla tentazione delle città incontrate per la prima volta, tanto più sole e di notte: desiderare la città d’altri. È una superbia, il vantaggio di sentire la città così bella e seducente e probabilmente trascurata, per abitudine, per distrazione, dai suoi abitanti. Gli uomini, anche quando hanno smesso di figurarsi le donne come proprietà di qualcuno, possono intuire una finezza nel comandamento: invincibile è il desiderio della donna d’altri, e della città d’altri. Che dura poco, non perchè la città si lasci conquistare, piuttosto perché presto diventa un po’ tua, normalmente – il desiderio svanisce, come una febbre da arrivo del viaggio – già quando la riattraversi il giorno dopo e la riconosci, e incontri i cittadini, ti raccontano le cose, presto sei pronto a raccontarle tu al prossimo venuto.

Ogni giorno, nei paesi dell’Unione Europea, cresce il numero di persone che non hanno fatto esperienza del passaggio del confine. Se ne vanno quelli che hanno conosciuto una guerra. Succede di non accorgersi più della libertà di non avere un confine – della libertà sconfinata. Non sanno l’emozione del primo attraversamento della frontiera, anche quando tutto era in regola: il tempo sospeso nel quale dominava l’arbitrio, la cancellazione del diritto, dei diritti, e tutto le si adeguava, i ceffi dei graniciari, i drusi, i vopos, i poveri cani lupo tenuti al guinzaglio corto, la neve chiazzata di cornacchie nere e grigie prima di Berlino. E dunque non sentono che è ancora così per chi arriva oggi.

All’inizio dell’anno scolastico 1930-1931, il 4 ottobre 1930, nel paesino di Verpogliano/Vrhpolje, qualcuno uccise a fucilate il maestro siciliano Francesco Sottosanti.

La notizia arriva sul Corriere della Sera il 6 ottobre. «Fascista ucciso nel Goriziano in una vile imboscata». Ritornava in bicicletta, scrive,

l’altra sera alle 22 da Vipacco dove funzionava nelle ore libere da impiegato in quel municipio… L’ucciso era un ardente fascista e milite della 62a Legione Isonzo… La vittima assolveva nel modo più encomiabile anche le funzioni di insegnante elementare nella scuola del luogo nel cui edificio abitava con la famiglia composta della moglie e di cinque tenere creature. La moglie – «già prossima a divenire madre per la sesta volta», informa La Stampa; ha 32 anni – lo aspettava alla finestra con un bambino in braccio. È stato colpito dopo aver salito i gradini, quando stava per aprire la porta con la chiave.

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La salma della Camicia Nera è stata trasportata da Verpogliano a Vipacco, dove «a cura e spese del Fascio stesso avranno luogo in forma solenne i funerali». I quali, dice il pezzo successivo,

sono riusciti imponentissimi. Vi parteciparono tutte le autorità di Gorizia e della provincia con a capo il prefetto e il segretario federale. Sono intervenuti tutti i segretari politici con i gagliardetti, i podestà dei comuni e della provincia, 300 maestri col provveditore agli studi comm. Mondino e circa 10 mila persone, tra le quali notati anche gli allogeni. Il rito dell’appello fascista venne compiuto dal console Avenanti e il comm. Mondino baciava il feretro porgendo alla vittima il saluto estremo di tutti gli italiani.

Al Museo di Nova Gorica (la metà slovena di Gorizia) ci sono le fotografie, una lunga colonna sulla strada di Vipacco. Gli scolari sono in divisa di Balilla o di Piccole Italiane.

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Da oltre confine i giornali raccontavano un’altra storia.

Succedeva regolarmente che il maestro Sottosanti sputasse in bocca ai bambini se pronunciavano anche una sola parola slovena, e per giunta li costringeva a ingoiare lo sputo. Dal momento che Sottosanti era anche tubercoloso, si può capire che oltraggiosa provocazione abbiano costituito le sue azioni tra la popolazione.

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È strano che questa storia non sia stata ancora raccontata. Le occasioni non erano mancate. Nella trama della strage che cinquant’anni fa stravolse la vita civile degli italiani, a Piazza Fontana a Milano, era comparso un personaggio, Nino Sottosanti – «Nino il mussoliniano» – che le biografie descrivevano con frasi vaghe come «figlio di un maestro siciliano ucciso forse da antifascisti sloveni», o «si diceva figlio di martire fascista», o qualcosa del genere – niente di più. Io avevo anche un’altra ragione per arrivare a questa vicenda. Nei luoghi in cui era avvenuta avevo trascorso una parte dell’infanzia e dell’adolescenza, una parte importante: avevo avuto un mio Carso. Mia madre, maestra elementare, aveva vent’anni nel 1930 in cui il maestro siciliano fu ucciso a Verpogliano, e insegnava in un paesino del Carso triestino a una scolaresca di bambine e bambini sloveni. Nelle memorie scritte per noi figli aveva ricordato il modo drammatico in cui aveva appreso la notizia, e una sua doppia verità: un colpo di scena. Quando finalmente ho deciso di ricostruire la storia, non mi aspettavo di trovare una terza verità. Un inaudito colpo di scena.

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Sesana/Sežana, è il primo paese che trovate appena superato il confine italiano sul Carso, venendo da Trieste, dal valico di Fernetti oppure di Basovizza. Un comune sloveno di 13 mila abitanti, più o meno 6 mila nel paese. Lipizza, dei nobili cavalli bianchi, è una sua frazione.

Sesana è il paese natale di Srečko Kosovel (1904-1926), e questo non dirà molto, peccato, a lettrici e lettori italiani, a meno che non l’abbiano conosciuto attraverso la monografia che al poeta ha dedicato Boris Pahor. Dirà molto a lettrici e lettori italiani, e specialmente siciliani, il nome di un altro nato a Sesana: Danilo Dolci, figlio di madre slovena fervidamente cattolica e di padre ferroviere. Bel colpo, eh? Ma non c’entra con noi qui. Dolci andò via presto. C’entra il fatto che, a Sesana, c’è una sede importante dell’associazione fra partigiani erede del Tigr, qualcosa come l’ANPI, più militante, direi, se non altro perché fino alla frantumazione della Jugoslavia e all’indipendenza slovena la memoria del Tigr incontrava forti ostacoli nella vulgata comunista titina. Insomma, a febbraio, accompagnato da Milan Pahor, storico e già direttore della Biblioteca Nazionale slovena di Trieste, vado a Sesana a incontrare Miha Pogačar, che è appunto il segretario del Društvo Tigr Primorske, l’Associazione del Tigr del Litorale.

Stiamo insieme a lungo e parliamo; cioè, io parlo, racconto l’intenzione della mia ricerca, chiedo e ottengo un’introduzione per Vrhpolje/Verpogliano, e alla fine ci alziamo e infiliamo i cappotti per tornare a Trieste. È allora che Miha, gran tipo cordiale e rassicurante, cacciatore e in compenso guardacaccia, brontola quasi distrattamente: «Da noi si dice che avessero ammazzato il maestro per sbaglio». Come? «Sì» dice «pensiamo che dovevano colpire il fratello».

«Aveva un fratello, no?» mi chiede. Aveva un fratello.

Piazza Armerina, agosto 1937. Benito Mussolini assiste alla manifestazione ginnica diretta da Ugo Sottosanti.


Tratto da: Il martire fascista, di Adriano Sofri, Sellerio (2019)

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