Monologrammi“Il Colibrì” di Veronesi, come tutti i capolavori, è un romanzo che muore senza morire mai

La rubrica neopassatista e veterofuturista di Pasquale Panella

‘Il Colibrì’ è un romanzo scritto a voce, voce prima in terze (come le armonizzazioni in musica) persone. La voce di chi? Ma, Signore e Signori, la voce di Alessandro, ecco a voi Alessandro, che nel romanzo si muove che è una bellezza, veramente una bellezza, una bellezza e più di un tormento, un bel travaglio. E che c’è, che c’è, che dice?

C’è che le lettere (le epistole inviate) si interrompono perché è finita la pagina o la lucidità…

…c’è che si fanno nomi, nomi antifrastici, nomen omen, nomi destino, soprannomi della sorte, nomi sonanti, nomi assonanti, nomi striscianti, nomi così fisici, nomi e cognomi che già compiono le azioni dei personaggi, nomi che hanno e danno corpo…

c’è che la ‘psicanalisi passiva’, ottima invenzione, è brevettata in questo libro e subito pronta all’uso nella vita, calda calda o fresca fresca di lettura (e da qui in poi questa invenzione la utilizzerete, letto il libro)…

c’è che il passato è nella fantascienza dei libri mancanti (bel colpo con destrezza)… fascicoli su mondi futuri e sull’avvenire mentre nella nostra famiglia succedeva qualunque cosa nel passato

c’è che, dalla lettura di questo libro in poi, le figure del discorso e del fuori discorso, la bolla e il mostro, saranno ottimi utensili (infatti li utilizzerete)…

… c’è che vuoi essere sincera? Bene. Ma non essere così sincera…

… c’è che mentire è male ma credere a chi mente è ancora peggio…

… c’è che se lei e soltanto lei ti lascia, la volta che ti lascia ti lascia due volte…

… c’è che il filo nella cruna dell’ago si infila in due modi, in due mondi opposti…

c’è che lo ius repertoris, questo nuovo istituto giuridico buttato lì così, decide i rapporti, mette insieme i bagagli culturali e poi, solo poi, mette insieme chi con essi viaggia (prendete e utilizzate pure questo)…

… c’è che sulla pagina duecentonove l’ultimo paragrafo se ne sta disteso…

E Alessandro sta dietro ogni porta, anche all’aperto, ascolta dal vero, e trattiene tutto in sé come in un libro, anzi senza come. L’ha imparato da Irene, sua sorella, che sa tutto di tutti, ma nessuno la vede quando lei è stremata come un romanziere che ha la spiaggia del suo romanzo sotto gli occhi

E Alessandro sta dietro ogni porta, anche all’aperto, ascolta dal vero, e trattiene tutto in sé come in un libro, anzi senza come. L’ha imparato da Irene, sua sorella, che sa tutto di tutti, ma nessuno la vede quando lei è stremata come un romanziere che ha la spiaggia del suo romanzo sotto gli occhi e, intorno, tutt’intorno, i Mulinelli, la melma spiralesca e a grandi ondate del mondo come chiacchiera, commento, sentenza, gorgheggio e gorgo, ma vattene affanculo, o immondo mondo (Irene, bel caratterino).

Poi ci ha messo del suo, dal vero anche il suo, suo d’Alessandro, e tanta magnifica applicazione a render facile il difficile da leggere. Ma Irene non è la sorella di Marco? Sì, ma Marco è nostro fratello Marco, così scrive, della terza persona romanzesca, Alessandro in prima persona d’autore, e la terza è appunto Marco, fratello di Irene, zia di nostra figlia Adele. Adele, o dio…

La prima persona, l’io, questo pronome quasi osceno, anche senza quasi, osceno in pieno, in piena notte, quando un senso ce l’ha e ce l’ha purtroppo, anche se è pomeriggio e non è notte. Per dire, ossia leggere: “… capì all’istante che Irene andava a finirsi nell’acqua… “. Chi lo capì? Marco. Ma chi, oltre a capirlo, lo scrive, e quasi lo riscrive per averlo già letto? Alessandro. E allora “… Marco atterrì… capì… uscì”, entrando nel racconto di Alessandro, che ha letto un racconto riscritto da Irene, soprattutto la fine. E allora…

A che servono i personaggi? A non perdere, forse, tutte le persone che perdiamo nella vita? Chissà. E i personaggi che muoiono nei romanzi? Morirono come persone nella vita, ma come personaggi no, non muoiono anche se muoiono. I personaggi sono come i nomi, restano, e quante persone sono seppellite dentro di noi come personaggi nei romanzi. Ma nei romanzi i personaggi tornano, e quello che muore alla fine è solo lui che muore. Lui chi? Ma il romanzo, che muore a ogni romanzo bello che arriva alla sua fine. Ci mancherebbe che così non fosse, ci mancherebbe. Bisogna restare, a libro finito, col libro chiuso in mano, almeno un poco, quel poco che è un diminutivo, anche un vezzeggiativo del ‘per sempre’ invezzeggiabile.

E allora, abbiamo risolto il quesito ammorbante sulla morte del romanzo. Non è più ammorbante: a ogni romanzo bello il romanzo muore, come se non ci fosse altro romanzo, almeno per un poco (scriverne ancora, sì, forse, chissà, però non subito, godiamoci un po’ di requie e un po’ di requiem), muore che è uno spettacolo, il romanzo, coi personaggi che poi sfileranno in passerella (è vero o no?). E non solo i personaggi, anche i debiti di riconoscenza in fondo al libro, quasi la musica, ma sì, la musica, questa paggetta che regge la coda. E hai quell’impressione: che non l’hai letto ma che l’hai riletto, il libro. Come una generazione, e tu lo sei, anzi più d’una: generazioni che ripercorrono le proprie stagioni, le estive, promettenti tanto, poi spente dagli autunni, e poi un altro anno ancora fino all’ultimo, dal quale torni indietro guardando le figure e leggendo giusto i nomi, le parti per il tutto.

Alla fine (alla fine!) cosa dire del romanzo, che dire? Siamo mica qui per fare i cianciosi, siamo mica qui per far moine. Allora, alla fine (la fine!) andiamo incontro a pericoli

Ci sono tanti anni giovani da rileggere, nei romanzi.

Insomma, il colibrì è romanzo, l’uccellino intendo, insomma, il libro. Poi che l’hai letto e chiuso, tienilo in una mano, metti il pollice dell’altra sul taglio delle pagine e fagli fare settanta battiti, settanta sfogliate al secondo, vedrai che ti resta nella mano dove è già, fermo, senza però fermare il mondo e il tempo, ché uno gira e l’altro corre (a parole si fermano soltanto nei romanzi scarsi), però riesce a risalirlo, il tempo, e a ritrovare quello perduto in un perduto mondo ritrovato: il colibrì è capace di volare all’indietro, come un romanzo appunto. Ecco perché stargli di fronte è così bello (ti senti un fiore, fiorisci) e anche impossibile (sei fiore, tu?), ma accade che tu sia di fronte alle ali delle sue pagine aperte e ti goda questa impossibilità, che forse è solo tua, non sua del romanzo. Lui questa impossibilità te la rende possibile.

E Miraijin? E Luisa? Non ne parliamo, sono tutte scritte. Tornateci voi su.

Alla fine (alla fine!) cosa dire del romanzo, che dire? Siamo mica qui per fare i cianciosi, siamo mica qui per far moine. Allora, alla fine (la fine!) andiamo incontro a pericoli.

Il primo è il cinismo, il cinismo e il sarcasmo, armamentari a punta dritta e a punta curva coi quali si raspano le pagine per tagliuzzarle in liste e peli da uovo, e non è il caso qui, proprio per niente. C’è l’ironia, stop, è tutta già nel libro, la voce di Alessandro nell’orecchio: Alé.

Il secondo pericolo è la commozione. C’è? C’è, e allora goditela, prendi uno specchio e guardati lacrimare. Parlarne? Ma per favore, non fare il bullo a gocce (dico a me).

Il terzo è il vittimismo – quando non addirittura l’invidia: tipo, appunto, guardali lì, io muoio, io romanzo sono alla fine e loro mi divorano con gli occhi conditi di piacere lacrimoso. E sarei vittima? Dovrei essere, io, invidioso, sentirmi, io, vittima, io che vado al punto? Non se ne parla quando tutto è scritto. Devo farli stare bene nelle loro lacrime paludose. Qualche ciglio è asciutto? Meglio, ho bonificato i loro occhi, e io sono già da sùbito un bel ricordo.

Pericolo numero quattro, essere patetico. Ehi guardatemi, ce la faccio da solo a fare la mia fine. Non è vero, ho bisogno che mi sfogliate fino all’ultimo. Insomma, la fine deve essere una specie di festa… e l’ospitalità è di alto livello qui nel libro.

In un romanzo come si deve ci vuole così poco (non è così ma così deve sembrare) alla fin fine: abbracci umani e abbracci delle cose e anche dell’acqua, del tempo, e baci in bocca. C’è una parola per gli abbracci slacciati o per gli abbracci non stretti? Non c’è, però anche quegli abbracci senza abbraccio qui ci sono. C’è una parola per i non baci in bocca, i baci a bocca asciutta? Non c’è, però qui ci sono anche quei non baci.

Ecco perché si scrivono parole: perché appaiano le cose che non paiono, i fatti, gli atti per dire i quali non ci sono le parole o non ancora. È vero o no, a pensarci, se un poco ci si pensa? Oppure, davvero davvero, crediamo che siano tutte storie? Anche non lo sono, perché sono tutt’altre.

Il romanzo muore alla fine di ogni bel romanzo, certo, perché il bel romanzo sì che sa cos’è un finale. Finito, tocca a te tornare in vita, a te che del romanzo sei l’opera aperta.

E qui dopo la fine comincia l’avvenire della creatura umana.

Qui è, di Sandro Veronesi, Il Colibrì, gran bel romanzo.

La nave di Teseo è l’editrice.

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