Un vero amico glielo avrebbe impedito. «No, Max», avrebbe detto, «non scrivere/incidere/pubblicare In questa città. Lascia stare». Purtroppo gli amici di Pezzali, come ammette lui stesso, sono dispersi o irraggiungibili: uno è all’Eur e «arrivarci è un viaggio». L’altro è a Trastevere e «c’è il varco attivo». Alla fine l’unico che riesce a incontrare è – testuale – un cinghiale a Tomba di Nerone che ha «lo sguardo triste» e che «gli fa le feste». E non possiamo certo sperare che un cinghiale sappia dare consigli musicali.
E così è nato il nuovo singolo di Pezzali, dedicato in modo del tutto inopinato a Roma. Scelta forse insolita, di sicuro azzardata. Come spiega lui stesso, sono tanti anni che per motivi familiari viaggia per la Capitale e – ritiene – ha imparato a conoscerla. Ora la vuole celebrare, ma il testo sembra la caricatura di Corrado Guzzanti che fa la caricatura di Antonello Venditti, solo che lui, essendo pavese, si prende sul serio.
Non per nulla inizia con il rammarico tutto settentrionale di non essere sceso a Tiburtina, visto che i taxi a Termini «sono solo una decina» e loro sono in mille. E poi c’è il mitologico «tappo sulla tangenziale» (altra parola non-romana), tanto che a «Prati fiscali si può pure invecchiare», fino alla conversazione insieme probabile e surreale con il taxista che parlando di calcio e Inter gli chiede prima se «è milanese» (che Max fa rimare con sottigliezza con «Villa Borghese») e poi vuole sapere che ci va a fare «in culandia», espressione che fa tenerezza, perché ricorda quello slang giovanile che una volta padroneggiava e, anzi, patrocinava.
Se si è sentito a casa a Roma, vien da pensare, un motivo ci sarà. Forse, nonostante le dimensioni, la Capitale sarebbe riconoscibile solo come un grande paesone
Senza volerlo e forse senza neppure immaginarlo, Max Pezzali ha costruito un elogio che è un inno anti-Raggi (il traffico, i trasporti che non funzionano, i drammi di una città troppo grande e, soprattutto, l’amico cinghiale), lo ha mescolato con i classici cliché da turista e ha aggiunto la sua rilettura luogocomunista della mentalità romano/romanesca, fatta di menefreghismo, fatalismo («se no anche sticazzi») e beata contemplazione delle glorie passate («tu vieni su al Gianicolo a guardare la città»). Neanche Brignano.
Ma il problema non è tanto la canzone in sé, quanto – come avrebbe detto Hegel – la canzone per sé. Più che al risultato occorre badare alle intenzioni, ed è qui che la questione diventa grave: come si spiega la calata di Pezzali sulla Capitale? Lasciamo stare le ragioni degli affetti (e anche il fatto che Zerocalcare abbia disegnato la copertina: è evidente che non aveva ancora sentito la canzone): come mai, dopo tanto cincischiare tra le nebbie e il vuoto delle colline pavesi, ha deciso di affrontare la traversata del Po e arrivare nella città eterna? Forse, superati i 50 anni, voleva cimentarsi con il racconto di tre milioni di persone, anziché le solite 73mila. Ma la sua conquista della città, sull’illustre scia di Renato Pozzetto, lo rivela inadeguato, buffo, superficiale. È deprimente, poi, voler cantare un amore e sembrare solo uno di passaggio – se è davvero amore, par di capire, non è ricambiato.
Oppure c’è un’altra spiegazione: ancor meno lusinghiera però per Roma, i romani e la stessa Raggi. E sarebbe che Max Pezzali, vero cane da tartufo degli aspetti più tristi della provincia italiana, li abbia ritrovati proprio lì. Se si è sentito a casa, vien da pensare, un motivo ci sarà. E allora Roma, nonostante le dimensioni, sarebbe diventata solo un grande paesone, l’enorme provincia che racchiude in sé tutte le province, lontana dalle aspirazioni internazionali di Milano e dalla retorica di capitale europea. Nella sua estensione, Max può averci visto solo un conglomerato di Pavie, tantissime Pavie, dalle forme diverse ma dal medesimo spirito.
Sarebbe un brutto segnale, allora. In questa città è l’allarme da ascoltare, il canarino nella miniera, la sirena dello tsunami. Anche perché, nel suo mimetizzarsi da romano, Max Pezzali non racconta solo le lamentele, ma anche la solitudine di ciascuno (amico cinghiale, dove sei?) e il senso di abbandono. Dal «siamo qui noi» del 2005 si passa a «sti cazzi». I problemi ci sono, ma ce ne infischiamo. Perché a proteggerci, dai palazzi e non solo, non è rimasto nessuno.