Diritti umani del XXI secoloI Big Data tra privacy e profitto: la via da seguire l’ha tracciata l’Europa

Informazioni preziose perché, se bene utilizzate, possono generare profitti. Ma anche assicurare potere e controllo da parte di chi le detiene. I dati sono una materia prima importante e regolamentarne l’uso richiede sensibilità e intelligenza. Nel Vecchio continente, per fortuna, non sono mancate

da Needpix

Diritti umani e innovazione: il matrimonio è possibile. Ora che in Italia si riapre il conflitto tra anonimato e trasparenza sui social – conflitto politico, quindi, difficile che possa arrivare a un dunque esaustivo e in breve tempo – forse sono le libere professioni coloro che possono aprire nuove rotte nella regolamentazione del web, affinché diventi davvero un grande bacino di sviluppo economico, ma nel rispetto di valori quali tolleranza, convivenza, democrazia e libertà individuali.

Il recente incontro organizzato da Wired legal, e voluto da alcuni studi top di avvocati italiani, ha smontato il pregiudizio per cui il mondo delle toghe sarebbe immune alle innovazioni digitali. Tutt’altro. Se c’è un settore che sta lottando per innovarsi e per stare al passo con i processi evolutivi dettati dal digital, è proprio quello dei liberi professionisti. Dalla fatturazione elettronica alla data governance, dalla protezione dei dati personali alle blockchain. Nonostante quel che si pensi, commercialisti, notai e avvocati sono obbligati – dalle norme, dalla Pubblica amministrazione, dalle esigenze dei clienti – a essere sempre più informatizzati, quanto anche interessati a farlo. Per ragioni di marketing e new business.

Tutto questo non va ridotto a un bel convegno, dove dei bravi professionisti dicono cose interessanti e si scambiano biglietti da visita osservando il panorama milanese dall’alto della terrazza Martini. No, tutto questo ha un peso sociale e politico in cui l’Europa è protagonista. La storia insegna come la strada da intraprendere spesso venga decisa prima dalla pratica e dall’esperienza e poi disciplinata a tavolino. In tal senso avvocati o chi per loro vanno visti come pionieri, che cercano di dare un nome a delle terre che, finora, sulle carte geografiche sono indicate come “hic sunt leones”.

Partiamo dall’assunto che i dati personali sono una cosa delicata. Da un lato possiamo trattarli come una materia prima, oggetto quindi di un’intera filiera produttiva. Dall’altro, riguardano l’identità e la privacy di una persona, con le dovute implicazioni etiche e normative. Se strumentalizzati o manipolati con furbizia, sui big data ci si può costruire una campagna elettorale. In un’ottica di maggior respiro, se ne può trarre il potenziale percorso evolutivo di un’intera società. Non solo in termini commerciali. Per la prima volta nella storia, la statistica probabilistica ha raggiunto un tale livello di specificità, che le prospettive della realizzazione di un fenomeno sono molto più realistiche anziché ipotetiche.

Siamo a un bivio però. C’è infatti chi dei big data insiste a farne squisitamente un business. È il metodo Made in Usa. Più dati si hanno a disposizione – sulla persona, su una collettività, o su un manufatto – più sarà perfettibile il mondo. I dati sono conoscenza. Materia prima si diceva. Riciclabile e duttile. Come la plastica. Nel mondo medico-sanitario per esempio, i rilevamenti e l’archiviazione dei dati permettono una più approfondita indagine genetica sulle malattie. Nel marketing e nella pubblicità, produttori e venditori possono indentificare in maniera più “tailorizzata” esigenze e desideri dei propri clienti. O potenziali tali. E così via. Tutti noi siamo consapevoli della tracciabilità. Dei suoi vizi e delle sue virtù.

Forse non siamo forti in fatto di ricerca e innovazione. E tanto meno possiamo gareggiare con le industrie pesanti d’oltreoceano o dell’Estremo Oriente. Tuttavia sul terreno normativo siamo ancora in grado di dire la nostra

Ma poniamo il caso che tracciabilità e big data abbiano anche ricadute politiche. È il caso della Cina; seconda opzione del nostro procedere. La legge apposita, varata da Pechino, risale a inizio 2018. E parla di sicurezza dei dati personali (Information Security Technology – Personal Information Security Specification). Sicurezza, in questi casi, è un termine ambiguo. Si riferisce alla protezione dei dati, ma anche sui dati. Del resto un regime autoritario ha la tendenza a fare da grande fratello dei propri cittadini. Deve proteggerli, come anche controllarli. In tal caso, il concetto di data governance va interpretato come un modo elegante per indicare uno sterminato ripostiglio dove il governo di Pechino ha ordinato miliardi di faldoni virtuali, che può usare contro ciascuno dei suoi cittadini, in qualunque momento.

Fortunatamente c’è una terza strada. Quella europea. A casa nostra il rispetto dei dati personali – trasparenza e anonimato inclusi – rientrano in quei diritti fondamentali per cui l’Unione europea continua a essere un passo avanti rispetto ai suoi competitor globali. Il Gdpr e la riforma del copyright, tanto avversati da chi preferisce la giungla anziché le regole della convivenza (anche sul web), sono l’ultimo esempio di come il modello europeo, in fatto di tecnologia a vantaggio di tutti, possa essere esportato. Peraltro, un modello che, a un anno dal varo, sta già dando buoni frutti. Il Gdpr è entrato in vigore a fine maggio dello scorso anno. Da allora le autorità di vigilanza Ue hanno registrato quasi 150 mila reclami e poco meno di 90 mila violazioni dei dati. Secondo Federprivacy, in Italia sono stati assunti circa 40 mila data protection officer (Dpo), nuove figure professionali, chiamate appunto ad amministrare e gestire – in maniera manageriale – i dati informatici delle aziende.

Questo vuol dire che qualcosa di buono in Europa succede. Forse non siamo forti in fatto di ricerca e innovazione. E tanto meno possiamo gareggiare con le industrie pesanti d’oltreoceano o dell’Estremo Oriente. Tuttavia sul terreno normativo siamo ancora in grado di dire la nostra. Siamo abbastanza creativi da poter vedere, allo stesso tempo, una materia prima che è fonte di ricchezza anche un oggetto da preservare. Il tutto mentre lo scontro Washington-Pechino prosegue. E chissà se, proprio per questo, il matrimonio tra innovazione e diritti umani non spetti a noi celebrarlo.