Domani l’Italia rinnoverà gli accordi con la Libia, continuando a finanziarne la guardia costiera e i «centri di accoglienza», di cui ormai sappiamo tutto, anche se preferiamo fingere il contrario. Ci è noto da tempo chi siano e come si comportino i gentiluomini che se ne occupano, e i recenti articoli di Nello Scavo su Avvenire lo hanno ricordato anche ai più distratti di noi. L’ultimo reportage di Francesca Mannocchi dai cosiddetti «centri di accoglienza» è di pochi giorni fa, è andato in onda su La7 e chiunque sia interessato lo può trovare sul web. In ogni caso, non servono molte parole per descrivere quello che si vede: si tratta di puri e semplici lager. Di fronte a un simile spettacolo, le dichiarazioni sulla necessità di apportare modifiche, correzioni, migliorie a questa o quella parte dell’intesa Italia-Libia, onestamente, fanno rabbrividire.
Ma permettono anche di mettere nella giusta luce tutto il dibattito sugli sbarchi e l’importanza di «impedire le partenze» dei migranti. Perché quelli ai quali la guardia costiera libica, con il nostro aiuto, impedisce di partire, riportandoli indietro, non se ne tornano a casa a guardare la televisione. Finiscono lì, in quei «centri di accoglienza» di cui ormai possiamo vedere e sapere tutto, se solo lo vogliamo. Ma la verità è che non vogliamo affatto. Preferiamo raccontarci che attraverso gli accordi con la Libia e la politica dei «porti chiusi» – scritta in quei decreti sicurezza che nessuno ha ancora toccato, e confermata dagli undici giorni che i naufraghi raccolti dalla Ocean Viking hanno dovuto aspettare per poter sbarcare – noi, in realtà, facciamo il bene di tutti, anche dei migranti, perché impedendo che partano impediamo che muoiano.
In mare.
Se anche i lager libici scomparissero come per magia, e davvero le persone riportate indietro dalla guardia costiera se ne potessero tornare a casa sane e salve, siamo sicuri che il ragionamento sarebbe meno mostruoso?
Certo, dal momento in cui si è cominciato a fare la guerra alle ong le morti – in mare – sono diminuite. Spesso si aggiunge che sono diminuite in termini assoluti e aumentate in percentuale – i viaggi sono diventati cioè meno numerosi ma più pericolosi, o per essere precisi più letali – ma è un cattivo argomento, a cui si risponde facilmente che l’importante è che meno persone muoiano. Cosa ci importa delle morti in termini relativi, cioè dell’aumentata pericolosità dei viaggi, se il risultato è che comunque sono in meno a morire?
Bisognerebbe sempre aggiungere che sono in meno a morire in mare, certo. Ma se anche i lager libici scomparissero come per magia, e davvero le persone riportate indietro dalla guardia costiera se ne potessero tornare a casa sane e salve, siamo sicuri che il ragionamento sarebbe meno mostruoso? Perché quello che stiamo dicendo, anche se magari non ce ne rendiamo conto, è che noi desideriamo che i viaggi di quelle persone diventino sempre più letali – togliendo di mezzo o comunque allontanando, intralciando e perseguitando in ogni modo le navi delle ong che potrebbero salvarli – allo scopo di evitare che ne muoiano altri in futuro. Lasciamo cioè che alcune persone muoiano (o se vogliamo essere pignoli: che rischino maggiormente di morire), affinché, grazie al loro esempio, altri si scoraggino e non tentino nemmeno la traversata. Forse, per capire meglio il punto senza scomodare vecchi filosofi e faticose astrazioni (quella vecchia storia di non considerare mai l’uomo semplicemente come un mezzo, per chi se la ricorda), dovremmo dar loro dei nomi, e dire: affinché Gino, Pino e Lino si scoraggino e non mettano a rischio la loro vita in mare, abbiamo pensato che il metodo più efficace è fare in modo che almeno uno tra Peppe e Giovanni muoia.
In fondo, stiamo parlando di questo. Ma quando la posizione che si autorappresenta come “pragmatica” e “realista” finisce di fatto per contemplare, per raggiungere i suoi obiettivi, la necessità dei sacrifici umani, forse è venuto il momento di fermarsi a riflettere su che cosa effettivamente siamo arrivati a considerare “pragmatico” e “realistico”. Vale a dire su quale realtà intendiamo contribuire a costruire con le nostre azioni, o con le nostre omissioni.