«Benedetto Croce diceva: la storia è sempre storia contemporanea». Perciò le imprese devono fare tesoro della propria memoria storica, e soprattutto aprire le proprie porte per farla conoscere. Così Antonio Calabrò, presidente dell’associazione Museimpresa, racconta il senso e l’aspirazione della Settimana della Cultura d’Impresa, la rassegna promossa da Confindustria e oggi giunta alla sua 18esima edizione, che dall’8 al 22 novembre coinvolgerà le imprese e la cittadinanza attraverso convegni, incontri, workshop, proiezioni cinematografiche, mostre, dibattiti e visite guidate in diverse città italiane alla scoperta delle buone pratiche e dell’impegno delle aziende nostrane in termini sociali e ambientali.
La storia è sempre contemporanea, e la storia delle aziende italiane è un unicum da valorizzare. «Le imprese italiane competono sui mercati mondiali non per il costo del lavoro, né l’alta tecnologia, né il bello in sé. È la cultura politecnica, l’insieme dei saperi umanistici e delle conoscenze scientifiche, che contraddistingue il settore manifatturiero del nostro Paese, la funzionalità unita al valore estetico che ci rende capaci di costruire macchine efficienti come quelle tedesche, ma più ergonomiche», spiega Calabrò. La mescolanza di saper fare e memoria, insomma, rende unico nel suo genere il comparto manifatturiero italiano, con un’esperienza che è «componente essenziale dell’identità e competitività; non soltanto testimonianza storica, ma una funzione della concorrenza e vero e proprio asset aziendale».
Oltre 70 eventi sono previsti da Nord a Sud del Paese per festeggiare questo 18esimo appuntamento, punta di diamante di un’attività di divulgazione e promozione che prosegue da anni. L’associazione, infatti, fin dal 2001 si propone di promuovere la politica culturale dell’impresa attraverso l’implementazione di buone pratiche come la valorizzazione di documenti, materiali, oggetti, prodotti e macchinari che raccontano le storie delle imprese e dei loro protagonisti, così come lo stimolo a creare musei ed archivi di impresa, di pari passo con la promozione del turismo industriale.
«Fin dagli anni ’50 la grande trasformazione dell’impresa italiana, ha consentito alle persone di trovare all’interno di imprese e fabbriche il sistema dei diritti e doveri che sta alla base della cittadinanza»
Dietro ad ogni bilancio, infatti, c’è molto più dei semplici numeri, ma «una storia di sforzi, di imprese, di vittorie e di sconfitte, di uomini e donne», dice il presidente, e in questo senso le imprese dovrebbero e considerarsi ed essere considerate dei veri e propri beni culturali. «Le prime biblioteche aziendali in Pirelli, ad esempio, furono aperte negli anni Venti. Fin da quegli anni abbiamo testimonianze di un sistema di welfare integrato, dal punto di vista della sanità e non solo, fra le imprese italiane», spiega. Fondamentale è che questi beni siano fruibili non solo all’interno, ma anche all’esterno degli edifici aziendali. «Le imprese sono disseminate nel territorio, il rapporto con la cittadinanza le rende sensibili sia in termini ambientali, sia verso le loro stesse esigenze. Da questo punto di vista una industria “cresciuta all’ombra dei campanili”, cioè nei territori, poi ha un rapporto positivo con le esigenze sociali dei territori», racconta ancora Calabrò. È proprio in tal senso che l’associazione si pone l’obiettivo di promuovere e mettere in rete le imprese che scelgono di privilegiare il proprio patrimonio culturale all’interno delle proprie strategie di comunicazione.
Raccogliere in maniera esaustiva e comunicare efficacemente questa ricchezza, infatti, è essenziale. Soprattutto in chiave – questi i termini centrali della settimana – di sostenibilità e di inclusività. «Queste sono intese in maniera duplice, in termini sia ambientali che sociali, dalla sicurezza sul lavoro alla scelta crescente in termini di parità di genere», dice il presidente. «Fin dagli anni ’50 la grande trasformazione dell’impresa italiana, ha consentito alle persone di trovare all’interno di imprese e fabbriche il sistema dei diritti e doveri che sta alla base della cittadinanza». Le aziende, insomma, da sempre luogo di inclusione e trasformazione. «Anche in territori difficili, come l’industria bresciana o quella del nordest, dove tanti hanno trovato lavoro, accoglienza, cittadinanza, perché bravi».
«L’impresa è l’unico vero ascensore sociale che esiste in questo Paese», dichiara ancora il presidente. E, contrariamente ad una certa politica, «in cui i fondi pubblici vengono investiti su reddito di cittadinanza o quota cento, ma non sull’innovazione, l’impresa è un elemento di grande mobilità». Troppo spesso le imprese vengono viste come gli attori negativi del gioco, mentre invece «l’industria italiana è molto meglio di come viene rappresentata e merita molta più attenzione di quanto una cultura anti industriale e antiscientifica, presente da troppo a lungo nei governi, le riserva», puntualizza il presidente.
«Bisogna che le imprese aprano le loro porte ad artisti, fotografi, registi e creativi. Bisogna far rientrare nelle nostre fabbriche donne e uomini di cultura: siamo o no un soggetto culturale?»
Ma perché questa narrazione ha preso piede? Il capo di Museimpresa ammette come, purtroppo, «in molte imprese è prevalsa l’abitudine a stare e si è sottovalutata l’importanza di raccontarsi». Ma questo non dovrebbe distogliere dall’importanza di esempi positivi, di cui fortunatamente godiamo in grande quantità: Pirelli, Merloni, l’industria elettrodomestici Borghi, Zambon in Veneto, Della Valle, Bacchi, Ima, gruppo Seragnoli sono solo alcuni tra i casi più meritevoli di menzione. Oggi molte di queste realtà hanno aperto fondazioni, progetti, musei che non sono solo autocelebrativi, ma che agiscono per la comunità. A fare da apripista, racconta il presidente di Museimpresa, fu a suo tempo la Federchimica: «quella che aveva una reputazione di azienda inquinante e pericolosa per definizione, ha aperto le sue porte per far conoscere i propri processi interni». Se non avesse funzionato, probabilmente oggi non saremmo qui. «Noi siamo un paese manifatturiero, asse portante dello sviluppo italiano», dichiara fiero Calabrò.
Oggi un’ottantina di aziende hanno dimostrato di aderire ai valori e alla missione dell’associazione. Ma ancora «moltissime imprese vanno educate a riconoscere e valorizzare il loro patrimonio, conservandolo e rendendolo fruibile». Discorso valido anche per le startup, che «proprio non avendo una lunga storia alle spalle vanno stimolate a pensarci». Non soltanto in termini di comunicazione e storytelling aziendali, ma abbracciando il coraggio e la responsabilità di un confronto aperto con tutti gli attori in gioco, a partire dalla società civile. Per questo «bisogna che le imprese aprano le loro porte ad artisti, fotografi, registi e creativi. Bisogna far rientrare nelle nostre fabbriche donne e uomini di cultura: siamo o no un soggetto culturale?», si chiede il presidente.
In fondo, solo facendo tesoro della propria identità, ed unendola a quella di altri, è possibile porre in atto i veri processi alla base del progresso. «Gustav Mahler diceva: “la tradizione non è custodia delle ceneri, ma è culto del fuoco”. Noi crediamo profondamente a questo, è essenziale», conclude Calabrò. Attraverso progetti con le scuole, il rapporto con i creativi, il finanziamento di iniziative culturali, il sostegno a festival e attività strettamente legati ai territori, oltre che investimenti su di sé e sulla possibilità di raccontarsi e di farsi raccontare, le imprese possono riacquisire quella centralità che, in attesa di essere riconosciute in maniera onesta nella narrazione pubblica, già nella pratica hanno per la vita del Paese. E la politica? «Basterebbe che fosse meno disattenta e ostile, e che capisse che senza imprese non c’è sviluppo di qualità nel paese. Bisognerebbe investire soldi pubblici su ricerca e formazione, agire sulla leva fiscale per dare alle imprese una mano per tutti i processi di cambiamento, mettendole in condizione di reggere tutte le sfide poste dall’intelligenza artificiale. Non condoni fiscali per premiare i furbi, ma risorse per chi paga meglio i giovani. Servirebbe capire cos’è una vera politica industriale sull’innovazione. Ma più di tutto bisognerebbe mettersi nell’ottica che l’impresa non è una mucca da mungere o un nemico da tartassare».