Dopo anni di avversione, veti e rinvii, la Germania ha aperto per la prima volta alla riforma chiave dell’eurozona: l’unione bancaria. Con una lettera al Financial Times il ministro dell’Economia tedesco Olaf Scholz ha ceduto sulla possibilità di creare una garanzia unica europea dei depositi bancari. Tradotto: un sistema comune per tutelare i risparmiatori che possiedono fino a centomila euro in una banca in fallimento. «Non è stato un piccolo passo per un ministro delle finanze tedesco» ha ammesso Scholz. È vero, l’apertura è epocale, ma pur sempre alla tedesca. Perché in cambio di uno schema paneuropeo di condivisione del rischio in caso di una crisi bancaria, la Germania chiede che i singoli Stati siano i principali responsabili della tutela dei risparmiatori. «Mi sembra una falsa apertura. Basta guardare cosa consiglia concretamente Scholz. Nel suo schema di assicurazione europea dei depositi, dovrebbero intervenire in prima battuta i fondi nazionali di assicurazione. Poi esauriti questi, subentrerebbero altri governativi dello Stato in cui la banca è fallita. E solo alla fine si potrebbe accedere ai fondi erogati da un ente europeo, ma a prestito. Al di là dell’apparenza, è la solita proposta tedesca», spiega con disincanto Angelo Baglioni professore ordinario di Economia Politica presso l’Università Cattolica di Milano. «In teoria in un sistema di assicurazioni comune europeo, il fondo di assicurazione per rimborsare i depositanti dovrebbe essere a fondo perduto, finanziato da tutti gli Stati. Qui non si parla di rimborsi, ma di prestiti».
Ci sono altri aspetti della proposta di Scholz che non convincono gli esperti. Per esempio nel primo punto del suo manifesto, il ministro tedesco in cambio di un meccanismo europeo comune di assicurazione dei depositi chiede di rendere uguale in tutti gli Stati Ue la procedura di insolvenza e risoluzione di una banca in crisi. Per farlo chiede di applicare alle piccole banche di solito soggette alle leggi di insolvenza nazionali, la stessa regola europea che si fa valere per gli istituti di credito grandi: come la bridge bank. «Scholz cita come modello di riferimento la Federal Deposit Insurance Corporation, ma sembra dare per presupposto che negli Stati Uniti ci sia un comune strumentario di risoluzione e gestione delle banche in crisi. Ma il quadro è più complesso», cita come modello la Federal deposit insurance ma dà per scontato che negli Stati Uniti questa autorità federale agisca con una sola procedura di insolvenza. Non è così», spiega il professore di diritto pubblico comparato all’Università di Perugia Andrea Pierini, autore di Unione bancaria europea come federalizing process (Cedam). «Dal 2010 col Dodd Frank Act è stata introdotta una procedura speciale per la risoluzione delle crisi della grandi banche e istituzioni finanziarie più grandi, con una rilevanza sistemica, come la bridge bank, il bail in o la bad bank che è stata applicata dopo l’insolvenza delle banche venete». Il nodo sta tutto qui. Individuare delle procedurepiù uniformi e con minori margini d’incertezza e discrezionalità. Ma quale scegliere? Su questo terreno ambiguo si giocherà la battaglia politica. Come sempre, il diavolo si nasconde nei dettagli.
La sensazione è che solo una nuova crisi dei debiti sovrani possa far uscire gli Stati Ue dalle loro posizioni
Anche il secondo punto rischia di essere poco digeribile per banche come quelle italiane o spagnole che possiedono ancora molti non performing loans. Ovvero quei mutui, finanziamenti e prestiti che i debitori non riescono a ripagare in modo regolare e che gli istituti di credito sanno di non poter mai riprendere del tutto. Scholz chiede di rafforzare il settore bancario europeo riducendo il numero dei crediti deteriorati: «È un modo per responsabilizzare gli Stati e i loro sistemi bancari.
Ma se la questione dei crediti deteriorati fosse affrontata in modo non graduale, imponendo regole più stringenti di quelle attuali implicherebbe anche una rapida svalutazione degli stessi portafogli crediti. Verrebbero così ceduti sui mercati secondari dei titoli deteriorati a prezzi irrisori in favore di gestori specializzati, sempre più diffusi grazie ai notevoli utili che si ottengono da quest’area di business. Ci sarebbero così effetti negativi sui bilanci e sul valore di mercato degli Istituti bancari dei Paesi più esposti su questo fronte»», spiega Perini. Anche se a dire il vero il rapporto degli npl nelle banche europee è diminuito molto, e a giugno è sceso a un nuovo minimo del 3,04%.
Forse il punto più controverso della proposta Scholz è la richiesta d’introdurre dei requisiti di capitale che riflettano il rischio di concentrazione sulle esposizioni delle banche ai debitori sovrani, soprattutto gli Stati. In teoria le regole di Basilea II impongono alle banche di detenere un capitale di vigilanza che viene ponderato in base al rischio delle operazioni ma non vale per esempio quando gli istituti di credito comprano titoli di Stato come Btp italiani, bonos spagnoli o bund tedeschi. «A oggi tutti i titoli di Stato vengono trattati allo stesso modo e hanno peso zero nella misurazione del rischio nel calcolo del coefficiente di capitale. Ma bisogna stare molto attenti perché se si introducono in maniera drastica e rapida dei coefficienti di capitale positivi sui titoli di Stato, le banche italiane sarebbero molto danneggiate», spiega Baglioni. Soprattutto dopo che il 29 ottobre Standard and Poor’s ha confermato il rating sul debito sovrano dell’Italia a BBB. Solo due gradini sopra il livello spazzatura. Per questo il tema rimane tabù nonostante da anni Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, la Banca centrale tedesca, chieda di passare a un ponderamento del rischio per i titoli sovrani.
L’unico punto del piano Scholz su cui Italia, Germania e Francia sarebbero d’accordo è il superamento delle differenze nei regolamenti bancari. Sembra sensato evitare la competizione sleale tra banche in un mercato che si basa sull’integrazione. Tutti, tranne quei Paesi che hanno approfittato delle regole e tassazioni che variano tra Stato e Stato per creare una sorta di paradiso fiscale legale all’interno dell’Ue, come Irlanda e Lussemburgo. Qualche maligno fa notare che si è tornati a parlare di unione bancaria con condivisione rischi lo stesso giorno in cui si vocifera del fallimento di Deutsche Bank, ma c’è un’altra coincidenza da notare. La lettera di Scholz viene pubblicata negli stessi giorni in cui a Francoforte il board della Bce e alcuni regolatori si sono riuniti al Forum on Banking Supervision, presieduto dalla Banca centrale europea, in cui si è discusso di come applicare il terzo pilastro dell’Unione bancaria: l’assicurazione europea dei depositi. «Essere dipendenti dai servizi finanziari dagli Stati Uniti o dalla Cina non è un’opzione. Se l’Europa non vuole essere in balia della scena internazionale, deve avanzare con progetti chiave dell’Unione bancaria» scrive Scholz nella lettera al Financial Times, ma non basterà a uscire dallo stallo. La sensazione è che solo una nuova crisi dei debiti sovrani possa far uscire gli Stati Ue dalle loro posizioni.