La civiltà occidentale è bruciata il 15 aprile 2019. Ve lo ricordate? Per sei ore ne hanno parlato tutti, twittato, postato e whatsuppato, mentre le TV del mondo trasmettevano in diretta l’immagine di Notre Dame in fiamme, una sorta di 11 settembre in miniatura. Un momento di orrore che però ha l’effetto positivo di far sentire l’umanità unita da una tragedia.
In quelle sei ore obiettare che la civiltà occidentale – la libertà, i diritti, la legge uguale per tutti e la difesa delle minoranze – non può essere equiparata a un edificio, per quanto bellissimo, storico e simbolico, e che farlo ci riporta semmai a un pensiero magico, pagano e superstizioso, era impossibile. Altre sei ore dopo, domate le fiamme, posata la cenere e spente le telecamere, non ne parlava più nessuno. La cattedrale è rimasta in piedi, anche se acciaccata. I twittatori dell’apocalisse hanno fatto colazione, portato i figli a scuola, fatto la spesa e messo il bucato in lavatrice, come tutti i giorni, dimenticandosi di versare almeno un euro alla ricostruzione del simbolo che avevano pianto il giorno prima. La civiltà occidentale ha ripreso a respirare come prima, in attesa della prossima catastrofe in diretta.
Il 12 dicembre 2019 gli Stati Uniti hanno portato a termine il primo test di un nuovo prototipo di missile a medio raggio in 32 anni. Il razzo è partito dalla California per affondare nell’oceano circa 500 km dopo. In teoria potrebbe montare una testata nucleare. Questa notizia, riportata brevemente soltanto da pochi giornali e siti, ha segnato la fine di un trentennio di pace in cui l’Europa non era più considerata un potenziale teatro di guerra. Il trattato INF, firmato nel 1987 da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov, aveva proibito a Mosca e Washington di produrre e possedere missili di corto e medio raggio, gli “euromissili” che in caso di guerra atomica avrebbero ridotto il Vecchio continente in cenere in pochi minuti. Grazie a questo trattato è cresciuta una generazione che ha più paura della plastica nei mari che di non svegliarsi per una pioggia di missili nucleari sulle città europee. Era stata la fine di questa paura a far piangere di gioia l’Europa quando è caduto il muro di Berlino, una gioia che è apparsa dimenticata se non incomprensibile nelle celebrazioni del suo trentesimo anniversario, nell’ottobre del 2019. L’INF è stato rotto nell’agosto 2019 da Donald Trump, che ha accusato la Russia di aver già violato per anni il trattato e ha attribuito la colpa al Cremlino, che a sua volta ha già minacciato di puntare di nuovo i suoi missili sulle capitali europee. Non è ancora la fine della civiltà occidentale, ma è comunque un rischio per la sua sopravvivenza. Chiedete ai vostri conoscenti, soprattutto quelli che ammirano il modello della Russia putiniana, quanti di loro hanno sentito questa notizia.
Lo stesso 12 dicembre 2019 è scoppiato un incendio, provocato probabilmente da una scintilla durante lavori di saldatura, sul ponte dell’unica portaerei russa, Admiral Kuznetsov, Le fiamme e il fumo hanno causato la morte di un marinaio e mandato all’ospedale altri dodici, una tragedia che si è aggiunta alla già lunghissima lista di guai della malandata ammiraglia del Cremlino, che ormai da diversi anni perde pezzi, emette fumo nero e va a fuoco durante le missioni che la vedono girare il mondo in nome delle ambizioni geopolitiche di Mosca. Rimarrà in cantiere per almeno altri due anni, se non di più, visto che l’unico cantiere galleggiante che la poteva ospitare è affondato l’anno prima a causa di un black out per carenza di elettricità nel Nord russo. Ma nonostante decine di incidenti – test missilistici falliti, sottomarini affondati, cacciabombardieri schiantati e una mini-Chernobyl sfiorata in un’esplosione tuttora avvolta nel segreto in una base militare nell’Artico – il pubblico e i media percepiscono la potenza bellica della Russia più dalle sfilate in piazza Rossa e dalle foto del petto muscoloso di Putin (risalenti ormai a parecchi anni fa) che da questa cronaca di disastri, che spiega anche come mai la vera arma che Mosca punta contro la civiltà occidentale è un esercito di terroristi della tastiera.
Governare oggi significa creare percezioni vincenti, e il 2019 l’ha reso chiaro come mai prima. Da virus che ha infettato il sistema, il fake è ormai diventato lo spazio che abitiamo, e giornalisti, esperti e politici invece di informare e promuovere narrative trascorrono il loro tempo a smontare le informazioni e le narrative degli altri. Viviamo in una realtà deformata dell’apocalisse quotidiana, che troviamo molto più avvincente della noiosa e complicata realtà dei fatti. Mai prima d’ora abbiamo una tale ricchezza di informazioni a libera disposizione, solide, diversificate e qualificate, e mai prima d’ora ne abbiamo fatto un uso più superficiale e maldestro. Il “perception gap”, il divario tra i fatti e la loro percezione, segna la crisi della civiltà occidentale, quella della ragione e della tolleranza, molto più dell’incendio di Notre Dame. Nelle classifiche di Bobby Duffy, il direttore dell’istituto Ipsos Mori autore della fondamentale ricerca sulla credulonità globale I rischi della percezione. Perché ci sbagliamo quasi su tutto (Einaudi, 2019), gli italiani sono tra i meglio piazzati, ma comunque si trovano in ottima compagnia. E questa deformazione non è solo il prodotto intenzionale diffuso dai troll e inventato dagli spin doctor dei politici o dai dipartimenti di propaganda di potenze ostili. Siamo noi stessi, i produttori e i consumatori di informazioni, a cercare emozioni forti, a trasformare la politica in un grande reality show e i politici in eroi (e cattivi) da fumetto, accessibile a tutti e non solo più agli esperti e gli addetti ai lavori.
La morte, vera o presunta, della civiltà, la catastrofe ecologica, il terrorismo diventano chiacchiere da salotto, conversazioni da cena, da fare con lo stesso fiato con il quale si parla delle stagioni che non ci sono più, delle serie televisive o dei pettegolezzi sugli amici. Il “locker room talk”, la chiacchiera da spogliatoio di trumpiana memoria, è salito fino alle tribune parlamentari e alle conferenze stampa dei capi di Stato. Ma c’è stato anche il movimento inverso, e argomenti complessi un tempo riservati a consessi di esperti vengono ora dibattuti e liquidati in pochi click, e l’entusiasmo diffuso per il selfie con il dito medio della compagna di viaggio di Salvini dimostra come il linguaggio del populismo sia ormai entrato anche nel Dna di chi lo vuole combattere.
Il classico rimprovero lanciato da chi combatte l’alleanza internazionale degli stronzi e dei populisti è quello di ricorrere alla falsità e alla violenza “pur di avere qualche voto in più”. Un ragionamento dalla logica troncata: se i populisti riescono ad avere voti in più dicendo cose orribili è perché le cose orribili hanno più mercato. E in una società di massa, con un sistema di media che non a caso si chiamano “mass media”, è implicito che per vincere – le elezioni o lo share dell’audience – bisogna convincere non decine e nemmeno migliaia, ma decine di milioni di persone, e che per smuoverle e scuoterle bisogna spaventarle, eccitarle, dare loro un’emozione forte e un senso di appartenenza.
Qualunque psicologo alle prime armi sa che le impressioni negative sono più forti e durature, e che tenere un individuo sotto costante bombardamento di informazioni negative produce stress, depressione e ansia che impediscono di funzionare normalmente. Ma è anche il modo più efficace per ottenere click, e voti. Le buone notizie non esistono, è un vecchio motto dei giornalisti, entrato ormai nell’arsenale di tutti.
Nel vecchio mondo il compito di far star male il pubblico era riservato all’opposizione, mentre il governo tendeva semmai ad abbellire la situazione. Oggi, la gara a chi dipinge il quadro più fosco e a chi produce più sconforto negli ascoltatori coinvolge tutti, e il grado di paura prodotto da certi uomini di governo nel loro elettorato supera di gran lunga quello delle opposizioni. Ma il bombardamento quotidiano di minacce e paure aumenta anche la soglia di tolleranza nei lettori/elettori, che esigono dosi sempre più elevate di orrori per poter provare almeno un brivido, da dimenticare il giorno dopo.
Secondo Duffy, non siamo meno informati o meno razionali di quarant’anni fa. Siamo ignoranti in modo più o meno uguale, quello che è cambiato è il modo in cui l’informazione viene maneggiata. La gran cassa dei social network ha rivelato, sdoganato e incoraggiato il fake, il pregiudizio, la violenza e la paura, che riescono a contagiarne in poche ore una platea quasi globale. Ma il vero cambiamento non è quello del popolo, è quello dell’élite, che ha deciso di inserire questi strumenti nel suo arsenale. Non è che prima di Salvini e Trump i politici non avessero saputo che alimentare l’odio verso il diverso, cercare capri espiatori, gonfiare l’ego nazionale e spaventare la brava gente semplice con i forestieri pronti a rubare agli autoctoni le donne e le terre erano strumenti efficaci. Lo sapevano fin troppo bene, anche perché gli esempi erano ancora freschi nella memoria, come anche i risultati finali di questi esperimenti. Contrastare la percezione che viviamo in un mondo invaso da immigrati, dominato da serial killer e terroristi e flagellato da una crisi morale e materiale senza vie d’uscita diventa quasi impossibile.
Possiamo dimostrare, con numeri di fonti autorevoli e imparziali alla mano, che buona metà delle paure che ci affliggono sono inventate, o comunque molto esagerate. Il terrorismo islamista? In Occidente è drasticamente diminuito, e nel 2018 ha rivendicato soltanto il 6% degli attentati, contro più del 17% delle stragi degli estremisti di destra, aumentato negli ultimi cinque anni del 320% (un numero vertiginoso, e i dati del 2019, dopo Christchurch ed El Paso, rischiano di essere ancora più clamorosi). L’Europa invasa dai profughi? Il Paese che ospita il numero più alto di profughi è l’Ucraina, un milione e cinquecento mila persone in fuga dal Donbass e dall’artiglieria (filo)russa, senza meritarsi né fiaccolate solidarietà, né raccolte fondi, né chiacchiere sulla civiltà occidentale che li sta semplicemente ignorando. Non sono opinioni, sono fatti. Provate a dirli in giro per vedere l’effetto che (non) fanno.
È un mondo per tanti versi nuovo, tutt’altro che mirabile. Rimpiangere quello vecchio, e sperare in un ritorno dei bei vecchi tempi di serietà e gerarchie intellettuali, di politici incravattati ed elettori leali e silenti, è inutile. Una zuppa di pesce non può tornare a essere un acquario. Tra l’invenzione dell’auto e quella del semaforo sono passati diversi anni in cui la vita dei pedoni è stata piuttosto movimentata (cit. Giuliano da Empoli). Si tratta di inventare le regole del traffico, e il 2019 ha segnato i primi tentativi seri di comprendere, codificare e arginare il caos. Il sistema immunitario della società ha anche prodotto i primi anticorpi: le sardine rivendicano il cambiamento della forma della comunicazione politica ancora prima del cambiamento dei contenuti. E le due success stories più incredibili dell’anno sono quelle di due persone che hanno attinto in pieno dall’arsenale populista e dai nuovi media.
Greta Thunberg ha utilizzato il linguaggio apocalittico della paura per smuovere la coscienza ambientale del mondo in pochi mesi, laddove decine di organizzazioni, governi e scienziati avevano impiegato anni di campagne e conferenze senza grandi risultati. Vladimir Zelensky ha candidato alle elezioni più il personaggio del presidente che aveva interpretato in una serie satirica che se stesso: ad aprile è diventato il presidente dell’Ucraina con il 73% dei voti, unendo un Paese diviso dalla guerra e dalla crisi con un discorso di pace, Europa e modernizzazione, e a dicembre l’ex comico si è guadagnato la copertina di Time come l’uomo che ha costretto Putin a tornare al negoziato ed è diventato causa dell’impeachment di Trump. Due esempi molto diversi, due storie ancora molto lontane dal lieto fine, ma che dimostrano che per vincere la guerra della percezione bisogna formulare e promuovere la propria narrativa. Non basta rispondere agli avversari “Non è vero quello che dite” e aspettare che la storia ci dia ragione.