I libri del 2019Il climate change della cultura, e noi

La scomparsa di Camilleri, la riedizione di Ercole Patti e, poi, Bret Easton Ellis, Domenico Starnone, Margaret Storm Jameson. L’unico modo di prepararsi all’anno che verrà è prenderlo dai piedi di quello vecchio

Per prima cosa, l’anno nuovo bisogna prenderlo dai piedi di quello vecchio, dal punto in cui ci si trova nel momento del congedo. La prima lettura del 2020 sarà anche l’ultima del 2019, perché sono immersa in un romanzo appena uscito di oltre cinquecento pagine, uno di quelli che chiedono una velocità tutta loro, ovvero una lentezza nobilissima; non bisognerebbe esprimersi mentre la lettura è in corso, ma per una volta si può fare: L’architettrice, di Melania Mazzucco, è una meraviglia. Si apre con la voce e lo sguardo di una figlia nello studio di Giovanni Briccio, genio multiforme come è e sarà lei; fra colla, libri, peli di animali messicani e tavole di caratteri dissezionati, Plautilla spia “il mondo di mio padre quando non era mio padre”. Diventerà architettrice e pittrice emergendo con difficoltà in un universo artistico pervaso dal maschilismo: è il 1600 o forse, in modi più striscianti, il 2019, chissà.

Intanto penso a dov’ero l’anno scorso e noto che i gradi di separazione tra le me stessa di oggi e quella di trecentosessantacinque giorni fa bisogna contarli sul termostato: questo è il Natale in cui friggiamo, letteralmente. Gli onesti che non hanno fatto il cambio di stagione girano in maniche corte mentre noi pavloviani del calendario ci ostiniamo a vestirci da inverno, come a mimare un cerimoniale grottesco. Considero quest’afrore decembrino una punizione personale: nell’anno appena trascorso mi sono rifiutata più volte di spacciarmi per climatologa. Ho in merito, come molti, idee di buon senso, ma credo di non essere abbastanza competente per esprimermi con precisione, tuttavia “scusa se non ne parlo, ma non ne so abbastanza” oggi è considerato un disvalore, mica l’ammissione che per farsi un’idea serva studiare, leggere un po’ di più che qualche articolo e un paio di instant book. Eppure al crollo delle competenze eravamo già stati preparati, dai vaccini all’omeopatia: a che serve essere scienziati quando basta avere orecchio per dire la cosa giusta al momento giusto? Per fortuna, quest’anno è tornato Michael Stipe e per il nuovo singolo ha chiesto una donazione per il movimento di sensibilizzazione sul cambiamento climatico; il mio mito dei vent’anni deve aver ragione per forza, i poster nella stanzetta hanno sempre ragione, quindi ho donato senza battere ciglio.

Non su tutto occorre sapere tutto, ma sempre bisognerebbe avere un alfabeto. Se guardo a ritroso dentro l’anno trascorso, Venezia si è presa buona parte dell’autunno con le parole che non ho saputo dire, facendo emergere le volte in cui ho cercato quelle degli altri, inadeguata e a volte stordita. Le foto dell’acqua alta erano dolorose a ogni latitudine. Ogni ora un altro limite era stato superato, ogni ora qualcuno buttava via un pezzo di vita, un pezzo di casa, libri e mobili, lettere e cassettoni. Il cataclisma non finiva mai, come in una poesia di Gianni Montieri: “tenersi un po’ per mano leggendo / marea sostenuta codice giallo / che diventa verde, marea normale.” I poeti hanno sempre l’alfabeto e noi non li ringraziamo mai abbastanza.

L’estate, la stagione precedente, era stato il tempo della morte di Andrea Camilleri, la fine di un’epica e di un’epoca; l’ombra lunga dei suoi ultimi libri trascinava il ricordo di un’altra vita a guardare, eccitate, Montalbano in televisione – io, mia madre e quella Sicilia all’improvviso scoperta da tutti. Credo solo all’invisibile, credo solo alle coincidenze, quindi avevo programmato, ben prima che ci lasciasse, di trascorrere l’estate interamente sulla mia isola a scoprirne zone che non conoscevo: le sue. Intanto, a luglio era morta Ágnes Heller, la filosofa ebrea ungherese che a una me stessa universitaria aveva spiegato la differenza fra bisogni alienanti e bisogni radicali, che mi aveva fatto conoscere il senso dell’utopia razionale e plasmato la mia idea di rivoluzione differenziandola dalle reazioni patologiche all’esistente. Heller era tra i pochi filosofi che avevo continuato a seguire; così, anche se lo sapevo già, quest’estate l’ho pensato un’altra volta: vivere significa lasciare andare, e scrivere significa sempre più essere pronti a scrivere coccodrilli (anche senza scriverli davvero).

Della me che ho giocato a rievocare, che viveva il capodanno 2018 come fosse l’ultimo, non ricordo quasi nulla. È un gioco frustrante, tornare a una mente priva delle ultime acquisizioni. Ero io, ma senza i libri letti o riletti nel 2019: Confidenza di Domenico Starnone, Il giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne, L’evento di Annie Ernaux, Peter Pan di James Matthew Barrie, Bianco di Bret Easton Ellis. Quali erano le mie idee sul rapporto fra commissione e ispirazione prima di assorbire le prime pagine di Company Parade di Margaret Storm Jameson? Erano già lì e quel classico riscoperto le ha solo fatte venire fuori, oppure ce le ha messe dentro lui? Non riesco a mettere a fuoco chi ero senza sforzarmi di isolare gli arti mancanti. L’unico modo che abbiamo di contare il tempo è scostare l’accumulo di nozioni e sentimenti fino a essere sempre più nudi, oppure possiamo muoverci per altre vie? La persona che non ha ancora visto al cinema Joker, Martin Eden, Pinocchio cosa pensa della difformità e dell’emancipazione, della complessità di Geppetto e della scrittura come riscatto? Ma soprattutto: esistono davvero annate e opere d’arte che ti cambiano la vita, dopo i venticinque anni?

Della primavera 2019 ricorderò la comparsa di Tutte le opere, di Ercole Patti, con l’erotismo dei romanzi, la forza letteraria delle descrizioni dei paesi etnei, il nitore polemico dei giudizi sul cinema. Viaggiavo molto, in quelle settimane, e portarmi dietro un libro di oltre tremila pagine era come avere un altro bagaglio a mano per cui i miei compagni di viaggio mi prendevano benevolmente in giro. Ecco un’altra cosa che non ho fatto nel 2019: cominciare a leggere gli ebook. Toglietemi tutto, ma non le librerie. Dei primi mesi dell’anno ricordo soprattutto le poesie di Antonella Anedda, che però avevo comprato nel 2018, ricordo ancora dove e con che spirito, quella lettura è un eterno presente: esiste davvero quella frontiera sulla quale brindiamo a mezzanotte di ogni trentuno dicembre?

Non c’è dubbio che brinderò anche stavolta. Sono rassegnata al fatto che non mi trasformerò in quel mio amico che prende un sonnifero alle dieci in punto per svegliarsi fresco, riposato e immune ai botti e al cotechino con le lenticchie, alle dieci del mattino dopo; lo ammiro e lo invidio, ma finirò sempre da qualche parte con un cerchietto ridicolo in testa a giocare al confine fra rito e finzione. Intanto, il 2019 non è ancora finito e faccio in tempo a confezionarmi l’opinione giusta sul surriscaldamento: con l’anno nuovo me la ritrovo pronta, e tutto andrà come si deve.

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