Il complesso sociologico-editorialeL’anomalia italiana è il populismo delle élite

Che si parli di «allarme sicurezza», «emergenza immigrazione» o invocazione dell’«uomo forte», è evidente dagli stessi sondaggi che si tratta di fenomeni alimentati anzitutto dal circuito mediatico che pretende di analizzarli e raccontarli

FILIPPO MONTEFORTE / AFP

Sul movimento delle sardine gli osservatori tendono a dividersi tra chi lo giudica una novità positiva e chi pensa che finirà come ogni movimento simile in passato, complici anche la moltiplicazione delle apparizioni nei talk show del suo leader e i sondaggi che già parlano di un nuovo partito. Pur essendo nate per contrastare il populismo, c’è persino chi vede il rischio che le sardine finiscano per diventare una versione edulcorata del Movimento 5 stelle.

Per quanto apparentemente controintuitivo, è un pericolo reale. Perché in Italia, una volta inserito nel circuito formato da giornalisti, sondaggisti e talk show, tutto finisce per diventare una forma più o meno edulcorata di populismo. E questo è anche il motivo per cui tanto il successo delle sardine antipopuliste quanto il declino del Movimento 5 stelle non significa affatto, purtroppo, un venir meno del populismo. E non solo perché, come sembra ritenere l’ Economist, che nell’ultimo numero dedica un lungo articolo alla crisi dei cinquestelle, i suoi consensi finiscono a partiti ancora più populisti, come la Lega (o Fratelli d’Italia).

Il problema è che il modo più semplice di identificare un leader populista – da Donald Trump negli Stati Uniti a Viktor Orbán in Ungheria, ai tanti casi più e meno recenti dell’America latina – sta nel modo in cui si rapporta con la libera stampa, che subito additerà come il nemico principale. Questa è la ragione per cui nel resto del mondo, e forse anche da noi, si fa tanta fatica a capire il populismo italiano. Perché da noi, in un certo senso, è accaduto il contrario: qui è la stampa che ha cominciato a prendersela con la politica democratica e con lo Stato di diritto, alimentando tutte le possibili campagne populiste contro i partiti («la partitocrazia»), il Parlamento («la casta») e le garanzie di cui tutti gli imputati dovrebbero godere («gli inquisiti»).

È vero che anche in America le invettive di Trump contro la «palude» di Washington attingono a un vasto network editoriale, che va da Fox News ai siti cospirazionisti dell’estrema destra. Ma a contrastarli, negli Stati Uniti, ci sono pur sempre quelli che i populisti definiscono spregiativamente i giornali (e le tv) dell’establishment: dal New York Times al Washington Post, alla Cnn. Da noi le campagne contro la «casta» sono partite dal Corriere della Sera (subito seguito da tutti gli altri).

La differenza rispetto al resto del mondo è che in Italia le élite stanno con i populisti

Basta vedere il modo in cui ciascuno si presenta ai lettori nelle rispettive campagne autopromozionali. In breve, la differenza tra le parole che il Washington Post ha deciso di mettere sotto la testata dopo l’insediamento di Trump («La democrazia muore nell’oscurità») e la pubblicità apparsa sul Corriere della Sera tre mesi dopo l’insediamento del primo governo Conte («Nessun politico scappa al processo… di invecchiamento»), o la più recente campagna di Repubblica (con il rovesciamento di tutti gli slogan salviniani, dalle ruspe alla legittima difesa, seguiti dall’appello: «alza la voce») è la stessa che separa l’Italia dal resto del mondo, anche in questo nuovo – presunto – conflitto globale tra populisti ed élite. E la differenza è che in Italia le élite stanno con i populisti.

Beppe Grillo e il Movimento 5 stelle non hanno dovuto inventare niente. Il loro lessico, il loro immaginario, tutto il campionario di complotti e cospirazioni di cui si sono alimentati, è semplicemente un concentrato di quello che la stampa italiana ha propinato ai suoi lettori almeno dagli anni novanta a oggi. A cominciare dal fatto, ormai considerato normale, che ai partiti si applichi il lessico delle inchieste di mafia: capibastone, cupola, sicari. L’uso dei verbali di procura come surrogato dell’analisi politica ha finito per stingere persino sul vocabolario con cui di politica si parla. Non dare chiaramente per scontato che qualunque risorsa pubblica o privata passi per le loro mani sia una probabile fonte di corruzione, sprechi e clientelismo, appare ormai un’inaccettabile forma di servilismo e compromissione con il potere. Un rovesciamento paradossale della realtà, che dipende dal fatto che in Italia il novantanove per cento dei giornalisti e degli intellettuali in generale si autorappresenta – o si fa gentilmente rappresentare dai colleghi, in attesa di rendere il favore – come «scomodo».

Edicole, librerie e trasmissioni televisive traboccano di intellettuali scomodi, tutti perfettamente inquadrati e irreggimentati, uniti e compatti come una falange. E non per modo di dire: persino le memorie del quadrumviro della marcia su Roma, il fascista monarchico Cesare Maria De Vecchi, Conte di Val Cismon, pubblicate nel 1983, sono state intitolate proprio così: «Il Quadrumviro scomodo». È insomma un tratto ricorrente della cultura nazionale, riemerso con Tangentopoli, e prima di Tangentopoli, in misura forse ancora più evidente, negli anni di piombo, ma alla fin fine antico quanto le polemiche antiparlamentari dell’Italia post-unitaria, da Giosuè Carducci in poi.

L’ultima stazione di questa giostra, simile a quelle attrazioni da luna park in cui il pubblico viene sottoposto a una scarica crescente di orrori di cartapesta, è il sondaggio in cui periodicamente si domanda agli italiani – con l’insistenza di uno stalker, o forse di uno spacciatore molesto – se non ne abbiano abbastanza di tutti questi inutili riti parlamentari e democratici. Se nel segreto del suo cuore l’elettore non sogni in realtà – lo ammetta! – l’«uomo forte».

Ora, a parte il sospetto che alla maggior parte degli italiani, per loro fortuna digiuni del nostro gergo politologico-giornalistico, la risposta appaia perfino scontata («e come lo dovrei volere un leader: debole?», potrebbero rispondere), il punto è l’effetto distorsivo prodotto da questo continuo bombardamento analitico-demoscopico.

Non c’è bisogno di scomodare la fisica quantistica e la complicata questione dell’osservatore-perturbatore della realtà osservata, perché qui non parliamo di particelle microscopiche, ma di qualcosa che si vede a occhio nudo. Che si parli di «allarme sicurezza», «emergenza immigrazione» o invocazione dell’«uomo forte», è evidente dagli stessi sondaggi che si tratta di fenomeni alimentati anzitutto dal circuito che pretende di analizzarli e raccontarli, come dimostra ad esempio il fatto che la maggior parte di coloro che dichiarano di condividere simili allarmi poi sistematicamente chiarisce di non avere avuto personale esperienza di nessuna delle suddette minacce. O il passaggio istantaneo dal voto per il partito senza leader dell’uno-vale-uno alla richiesta del capo carismatico.

Si può discutere di quanto sia fondata, per quanto riguarda gli Stati Uniti, la tendenza di tanti analisti a spiegare ogni scelta della democrazia americana come imposta dal complesso militare-industriale. Ma per quanto riguarda la democrazia italiana bisognerebbe forse cominciare a studiare l’influenza del complesso sociologico-editoriale, che ogni giorno sforna nuovi allarmi su cui far ruotare l’intera produzione di analisi e opinioni che caratterizza il nostro dibattito pubblico. Con gli effetti che abbiamo sotto gli occhi.

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