Giovane, grassa e senza lavoro. Questa è la nuova generazione che cresce lontano dai quartieri finanziari di Riyad, Doha ed Abu Dhabi. Tenerla a bada è una delle preoccupazioni più serie delle famiglie reali di Arabia Saudita, Qatar e Emirati Arabi Uniti, alle prese con un processo di rinnovamento socio-economico più complesso del previsto. Sceicchi ed emiri sanno che il futuro delle loro reggenze dipende da come cresceranno i loro giovani sudditi e da anni cercano di investire una parte delle proprie ricchezze in progetti che possano sostenere lo sviluppo di attività locali legate al turismo e all’hospitality, in grado di creare nuovi posti di lavoro fuori dal settore petrolifero. Comprare club calcistici all’estero, quindi, non basta più.
Oggi nel Golfo Persico la geopolitica del pallone si gioca in casa. Anche per questo, la Supercoppa italiana tra Juventus e Lazio si disputa a Riad. Nell’ambito del progetto “Vision 2030” voluto dal principe saudita Mohammad Al Sa’ud, lo sport ed il calcio in particolare hanno allora un ruolo decisivo. Il match di domenica tra i campioni d’Italia e la squadra di Claudio Lotito è solo l’antipasto di un menù ricchissimo, la cui portata principale – per la disperazione dei dirigenti della Lega di Serie A – è la nuova versione della Supercoppa spagnola, che si giocherà a gennaio a Gedda e che per la prima volta vedrà coinvolte quattro squadre (ovviamente le più importanti del Paese: Real Madrid, Barcellona, Atletico Madrid e Valencia).
Il sogno di Mohammad è quello di trasformare Riad in una sorta di Las Vegas tra le dune. Un progetto ambizioso, da perseguire senza badare a spese e che si ispira all’esempio di Qatar ed Abu Dhabi, gli altri paesi del Golfo che da anni usano il pallone come uno strumento per farsi largo nello scenario internazionale.
Il motivo originario per cui le monarchie del Golfo hanno deciso di investire nel calcio una parte delle loro ricchezze era quello di diversificare gli asset, fino ad allora troppo legati al petrolio. Il pallone è quindi diventato uno dei business più importanti per gli emiri e gli sceicchi, che lo hanno utilizzato come un costoso biglietto da visita per attirare i tour operator internazionali e dare lavoro alla popolazione locale. Così, dopo aver chiuso i deal per inaugurare le sedi arabe dei grandi musei occidentali, i fondi sovrani delle famiglie reali hanno cominciato ad investire nel passatempo che da più di un secolo fa impazzire gli europei: il calcio.
Il Qatar è stato il primo, aggiudicandosi la Coppa del Mondo del 2022 (per le cui infrastrutture Doha sta sborsando più di 200 miliardi di dollari) e poi acquistando per 42 milioni di euro il Paris Saint Germain. Nasser Al-Khelaïfi, chairman della Qatar Sports Investments e presidente del PSG, guida dal 2011 il progetto sportivo del club parigino e lo scorso febbraio è entrato nel comitato esecutivo dell’UEFA. Nel 2008 Mansour Al Nahyan, lo sceicco di Abu Dhabi (il più ricco degli Emirati Arabi Uniti) ha acquistato per 150 milioni di sterline il Manchester City. Dieci anni e quattro Premier League dopo, i Citizens sono il gioiello più prezioso della corona del City Football Group (CFG), la holding che oltre alla squadra allenata da Guardiola possiede altri 7 club professionistici.
Anche grazie alle capacità diplomatiche del tecnocrate più influente dell’Emirato, Khaldoon al-Mubarak, la famiglia reale di Abu Dhabi ha creato un impero calcistico che si estende dall’MLS americana (New York City FC) alla J1 League giapponese (Yokohama Marinos), passando per la Segunda División uruguayana (Club Atlético Torque), la Super League indiana (Mumbai City FC), la League Two cinese (Sichuan Jiuniu FC) e la A-League australiana (Melbourne City FC). Un progetto così ambizioso da sembrare economicamente insostenibile. Eppure, a fine novembre la società americana di private equity Silver Lake ha acquistato il 10% di CFG versando nelle casse di Abu Dhabi 500 milioni di dollari, fissando il valore totale del gruppo a 4,8 miliardi di dollari.
A prima vista, tutto sembrerebbe andare a meraviglia. Grazie al soft power dell’entertainment calcistico, i paesi del Golfo si sono costruiti un’immagine nuova, più moderna e trasparente, che ha favorito il cambiamento socio-economico interno e che ha permesso di avvicinare il mondo arabo all’occidente.
La realtà, però, è diversa. Perché il Qatar è stato travolto dalle accuse di corruzione e dalle polemiche per il mancato rispetto dei diritti umani. La UEFA ha accusato il Paris Saint Germain e il Manchester City di aver aggirato per anni le regole del Financial Fair Play, di fatto alterando l’esito delle competizioni europee. E l’Arabia Saudita, nonostante i recenti investimenti, non sembra poter far nulla per ripulire un’immagine troppo compromessa. Il terreno di gioco è questo, in un contesto geopolitico nel quale il calcio non è più solo sport.
Sono in molti infatti a credere che il passaggio di Neymar Junior dal Barcellona al PSG per 222 milioni di euro sia stata la risposta del Qatar all’embargo voluto (tra gli altri) dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti. I già pessimi rapporti di vicinato si sono ulteriormente incrinati lo scorso settembre, quando la FIFA ha dichiarato di avere le prove del coinvolgimento di una società saudita nello streaming illegale delle partite della Coppa del Mondo del 2018, per la cui esclusiva la tv qatariota beIN Sports aveva investito centinaia di milioni di dollari. Per non essere da meno, gli Emirati Arabi Uniti hanno assoldato un ex analista della National Security Agency americana per penetrare nei server del governo del Qatar e della FIFA, nella speranza di trovare le prove della corruzione che ha consentito a Doha di aggiudicarsi i Mondiali.
Nelle ultime settimane, però, la situazione sembra essere migliorata. Le discussioni per la riapertura del confine tra Arabia Saudita e Qatar sono in corso e la comunità diplomatica occidentale si sta impegnando per far sedere anche gli Emirati Arabi Uniti al tavolo delle trattative. Come spesso accade, il calcio può aiutare a ricucire i rapporti. In questi giorni centinaia di tifosi sauditi dell’Al-Hilal sono volati a Doha per sostenere la loro squadra nel Mondiale per club, mischiandosi senza problemi con la gente locale. Ai giovani sugli spalti le discussioni tra governi non interessano. Quello che conta, per il loro futuro, è che il pallone continui a rotolare da queste parti.