Caro Aquilotto, è arrivato il momento di mostrare gli artigli. C’è un 2020 alle porte su cui pochi nutrono grandi aspettative. Ed è per questo che a Confindustria spetta quel colpo di coda che solo i grandi ed esperti lottatori sanno assestare. Quando sembra che la belva sia k.o., ecco che arriva la botta. E si riapre la partita. Ti si chiede una mossa che inneschi nuovo ottimismo al sistema produttivo e, al tempo stesso, spazzi via critiche e sarcasmi su un soggetto intermedio ormai copia sbiadita di una grande pagina industriale.
Tra poche settimane, i cosiddetti saggi saranno chiamati a sondare la base imprenditoriale, per capire chi dovrà presiedere il board dell’associazione di categoria più influente del Paese. Influente? Beh, sì. Nonostante tutto, scandali inclusi – possiamo chiamarli tali? Dai, quello di Antonello Montante non può essere derubricato a incidente di percorso – Confindustria può ancora vantarsi di essere un potere forte nel sistema Paese. Un potere forte, voilà la parolina magica. Un’etichetta troppo spesso usata come una lettera scarlatta e che, al contrario, l’aquilotto deve tornare a fregiarsi senza alcuno scrupolo. Un soggetto influente, capace di indurre e guidare le istituzioni nazionali nel compiere scelte e quindi nel tracciare una politica economica che, a sua volta, raggiunga risultati ben chiari.
La differenza tra la nostra epoca e quelle passate è che l’incertezza – che è propria dell’imperscrutabile compiersi della storia – si accompagna con la rapidità dei cambiamenti. Non possiamo prevedere a cosa ci porterà la quarta rivoluzione industriale. I processi di digitalizzazione che condizionano sempre più la nostra quotidianità e il mondo del lavoro ci lasciano stupefatti delle evoluzioni che scienza e tecnologia riescono a raggiungere.
Ma quello che ancor più ci spiazza è la velocità con cui accadono le cose. Neanche mezzo secolo fa, si potevano azzardare previsioni a 10-20 anni. Oggi un lustro è già tanto. In un tale caos, per quanto entusiasmante ci possa apparire, il ruolo di un attore come Confindustria è quello di delineare a chi governa lo scenario di tutte le potenziali ripercussioni delle scelte fatte o da compiersi. Non tanto perché si è sicuri delle previsioni formulate, bensì perché a conoscenza del passato vissuto. L’esperienza ha ancora un senso.
D’altra parte, non si ha memoria di quando i poteri forti abbiano iniziato a scricchiolare. Forse quando si è cominciato a parlare di casta. Ovvero di una classe dirigente che, in una certa fase della vita repubblicana, ha mostrato una sua palese inefficienza. Quanti anni saranno passati? Dieci, dodici. Vuoi per operazioni mediatiche ed editoriali ad hoc (forse esse stesse inconsapevoli dello tsunami che avrebbero provocato) vuoi perché ci si era convinti che il mondo social potesse essere la nuova frontiera delle democrazie (era semplicemente un Far West) fatto sta che tutto ciò che rappresentava l’establishment meritava di essere “vaffadayzzato”. La classe politica, le grandi imprese, la Pubblica amministrazione, Confindustria. L’elenco non è completo per scelta. Meglio non rivangare le fatwe lanciate in quella calda domenica di settembre 2007.
Da allora, in pochi tra i condannati, si sono ripresi. C’è chi ha salutato per sempre la curva. Altri si sono adeguati. Si è arrivati perfino a identificare – all’estero, con l’auspicio di poterne essere influenzati anche qui – un populismo buono, capace di parlare alla testa e al cuore degli elettori. Non alla pancia. Il dramma però non è ancora finito. Al contrario, le ultime rivelazioni sulla Casaleggio Associati lasciano pensare che chi insiste a prefiggersi moralizzatore del Paese altro non è che un tessitore sfuggente, abile nel ricorrere ai più sofisticati strumenti di comunicazione di massa online, per indirizzare le comunità e le coscienze più ingenue.
E in tutto questo Confindustria? Un po’ per tradizione, un po’ per non far torto a nessuno, l’aquilotto ha cercato di galleggiare. Del resto, il mondo delle imprese non è sordo ai canti delle sirene populiste e sovraniste. La struttura dell’associazione poi, rigorosamente confederata, permette la quasi piena autonomia da parte delle componenti territoriali. La sua caratteristica tanto eterogenea, di imprese piccole, medie, grandi, statali, private, di ogni settore o cluster produttivo l’ha costretta a parlare a nome di un tessuto sociale che appare come un’elaborata – per non dire pasticciata – insalata russa. Altro che potere forte! Altro che soggetto intermedio, tanto influente e ammanicato col mondo politico da traghettare interessi e necessità bottom-up senza riscontrare ripercussioni top-down! Confindustria in questi anni di destrutturazione del sistema Paese ha retto come le piramidi in Egitto. Belle da vedere, ma cannibalizzate dai tombaroli nei suoi dedali, circondate da una megalopoli come il Cairo e con un passato glorioso assopito sotto la sabbia.
La storia ci insegna però che la darkest hour può tradursi in una finest hour, se a calcare la scena sono uomini e donne di buona volontà. È nell’assenza, o peggio nella più schietta inefficienza delle istituzioni che i soggetti privati possono (temporaneamente e con le adeguate cautele) sostituirsi alla cosa pubblica e dare a quest’ultima una nuova valorizzazione, in termini di crescita culturale e, materialmente, di ripresa economica.
Voliamo però un po’ più basso. Parliamo come farebbe un imprenditore sano e semplice del nostro made in Italy. Abbiamo detto dei poteri forti. Che non ci sono più. Siamo ancora più schietti però. Quello che Confindustria deve diventare è una lobby. Uno sherpa autorevole e inattaccabile degli interessi delle imprese. Il rappresentante di una fetta sociale che non si limita ai grandi (pochi) capitali, o alle partecipate, oppure ancora ad altre specifiche realtà produttive. Un influencer, nel senso letterale del termine, squisitamente impegnato nella realizzazione di un grande piano di crescita dell’intero Paese.
Oddio, sarebbe ingeneroso dire che tutto questo non è stato fatto finora. Il processo di disintermediazione ha la sua forza, ma è tutt’altro che compiuto. Forse anche perché l’aquilotto non si è lasciato catturare. D’altra parte gli sforzi sono stati maggiori delle rese.
Restiamo infatti l’unico Paese in Europa privo di una legge sulle lobby. A oggi, in Parlamento sono state presentate 88 proposte di legge di regolamentazione delle attività lobbistiche, senza che nessuna approdasse a un risultato. Non è chiaro il motivo per cui Confindustria non si sia mai espressa sul tema. Non lo si capisce, se non adottando retropensieri per cui, in via dell’Astronomia, si preferisce evitare di parlare di certe cose, per non urtare la suscettibilità di qualcuno. Così, dal momento che non esiste una norma che disciplini quello che i tuoi ti chiedono di fare, i piani di attacco che hai formulato sulla base di calcoli ed esperienza resteranno ad ammuffire in un cassetto.
Ma essere lobby vuol dire per prima cosa elaborare i propri conflitti di identità, poi pretendere un riconoscimento legislativo e infine, sì, lavorare nei palazzi, nei corridoi, nelle lobby appunto per l’interesse di chi si rappresenta. Non è possibile infatti leggere lettere aperte di presidenti di territoriali, Luciano Vescovi di Vicenza – giusto per facilitare le cose – che lanciano strali contro Alitalia (giustissimo), nel nome del libero mercato (sacrosanto), quando poi ad ambire alla nostra ex compagnia di bandiera ci siano imprese partecipate, esse stesse associate a Confindustria. Non è possibile che nessuno, lì, in associazione stessa, si renda conto dell’incoerente, triplo salto carpiato che si sta tentando di fare. Senza peraltro avere certezza che ci sia dell’acqua in piscina. Non è così che si rappresentano interessi eterogenei.
Agli occhi degli imprenditori, di chi non nutre ambizioni politiche o ansie di ribalta, tornerebbe ben più utile una Confindustria che lavora ai fianchi lo Stato e ne previene le scelte più assurde. Reddito di cittadinanza, Quota 100, plastic tax, eccetera. Per chi lavora gomito a gomito con suoi collaboratori, entrando anch’egli in stabilimento alle sei e mezza del mattino, serve una Confindustria che prevenga queste follie. E non che poi debba sedersi al tavolo per trattare e giungere a compromessi. Essere lobby significa anticipare le cose. Per quanto paradossale possa apparire, nel pieno delle incertezze, la forza è di chi sa intuire la strada pur avanzando nel buio.