Una legislatura appesa agli umori del senatore Gianluigi Paragone è ridicola. Forse l’ex presentatore della Gabbia non nuocerà più di tanto, ma che nei Palazzi si debba vagliare l’ipotesi di un governo in bilico per volontà di un senatore finito con i grillini dopo anni di onorata militanza politica-giornalistica nella Lega la dice lunga sullo stato delle nostre istituzioni. Del Parlamento, peraltro già scosso da un referendum che, appunto, alcuni parlamentari hanno promosso sulla questione – e daje – del taglio dei numero dei parlamentari.
Si assiste cioè ad un solipsismo politico-istituzionale totalmente sconnesso dalla realtà, come un reality show che non sappia concludersi o almeno trovare un racconto credibile. Per questo la situazione è aperta a tutti i finali possibili: perché quando si smarrisce il filo della razionalità politica tutto diventa possibile. Anche che un Paragone faccia crollare tutto.
Onestamente si fa fatica a credere alle smentite di quest’ultimo ai retroscena che lo vogliono in partenza dai grillini. Magari non ha (ancora) i numeri per formare un nuovo gruppo parlamentare o comunque per far mancare la maggioranza al senato, ma è senz’altro verosimile che il personaggio si atteggi e non da oggi a fare il Turigliatto della situazione, quel super-bertinottiano che in nome del dissenso faceva cadere un peraltro debole governo di centrosinistra regalando di fatto palazzo Chigi a Silvione.
Paragone lo strappo lo ha consumato votando no alla legge di bilancio affidando a Facebook un messaggio da paura: «Basta, cazzo, basta, la manovra no. Di Maio svegliati, porca puttana». Tac, eccolo deferito ai probiviri per un “processo” che lui stesso immagina come ridicolo («Ora ci divertiremo…»), uno dei tanti rituali fra il violento e il penoso di cui il partito di Di Maio è maestro.
Ma – farsa a parte – è possibile che l’ex ragazzo della Gabbia riesca a portare con sé un pochino di senatori grillini che vedono Di Maio come il paziente vede il trapano del dentista. Personaggi come Emanuele Dessì, quello a suo tempo finito nelle polemiche perché pagava 7 euro di affitto al mese nella ridente Frascati, evidentemente un ingrato, perché Di Maio, dopo averlo espulso, lo riammise e lo issò sui banchi di palazzo Madama.
Da questa collocazione turigliattiana, l’estroverso Gianluigi trarrebbe evidenti soddisfazioni di protagonismo personale: quale talk show vi rinuncerebbe, se dai suoi voti dipendesse una votazione delicata al senato? Ma soprattutto, quanto sarebbero disposti a offrire, politicamente s’intende, da una parte Di Maio e dall’altra Salvini? Quanto “varrebbe” l’ex direttore della Padania sul mercato politico?
Lui può smentire quanto vuole ma quando infuriava la polemica sul Mes è a noi personalmente che disse che a palazzo Madama era pronto un bel numero di dissidenti (poi in effetti ci furono i tre transfughi dal M5s alla Lega), ed è insomma attorno a lui che si sedimenta quella che il ministro Amendola chiama «la quinta colonna salviniana dentro la maggioranza». Ove scattasse il segnale del tana libera tutti, non sarebbe certo lui a incatenarsi in Parlamento.
È insomma l’ennesimo granello di sabbia nel cervellotico ingranaggio comandato da Giuseppe Conte, la nuova tragicomica minaccia alla vita di un governo esposto ai venti di questo o di quello e tuttora privo di una sua autonoma forza programmatica e politica, avvolto da una fosca nube di inerzia e di noia.