John Frusciante è ritornato nel gruppo, come se i Red Hot Chili Peppers fossero una qualsiasi chat di Whatsapp in cui entrare e uscire in base all’umore e alle incomprensioni.
La notizia ha fatto clamore, potenziata dalla volontà di non far morire quel pezzetto di anni ’90 che il tempo sta trasformando in una reliquia da custodire e proteggere come un bene prezioso, per poi essere tramandata alle generazioni future. D’altronde il miglior album dei RHCP è stato Blood Sugar Sex Magik, uscito nel 1991 quando John Frusciante aveva poco più di vent’anni inaugurando una stagione musicale molto florida che si distaccava dalla felicità artificiale degli anni ’80 e iniziava – soprattutto con i Nirvana – a mettere in mostra il disagio, quello vero.
Poi John (o Jack, se citate il libro di Brizzi) è uscito dal gruppo per la prima volta, iniziando uno schizofrenico entra/esci che dura tuttora e ha le sfumature di una telenovela. Gli anni ’90 sembrano resistere stoici al repulisti rapido che la contemporaneità comporta forse perché chi li ha vissuti ora ha l’età giusta per incominciare a provare malinconia per i tempi passati e può usare i nuovi mezzi tecnologici per amplificare quelle sensazioni.
Basta pensare a tutto il dolore e all’attenzione mediatica per la scomparsa di Luke Perry, per tutti semplicemente Dylan di Beverly Hills 90210. Con lui si è spenta una parte della mitizzazione massiva di quegli anni, quando ancora si parlava di telefilm e non di serie Tv, c’erano le figurine da collezionare e su Cioè i poster giganti dei protagonisti, che le mie amiche adolescenti idolatravano come fossero moderne divinità da venerare. Un’epoca in cui persino un gelato come il Cucciolone era un vessillo da mostrare, dopo aver letto la barzelletta che non faceva mai ridere, cercando poi di finirlo in meno di dieci morsi perché il ragazzino della pubblicità lo mangiava così. E per strada i bambini giocavano partite interminabili a pallone (che era quasi sempre un Tango o, per i più piccoli, l’imprevedibile SuperTele che disegnava parabole impensabili), che terminavano con le urla dei genitori: «La cena è pronta!».
Le figurine Panini di Roberto Baggio e quella di Aldair che non trovavi mai. Quando la Serie A era il campionato più importante del mondo e non esisteva il mercato invernale. Quando Dunga giocava al Pescara, Hagi al Brescia e il Milan vinceva sempre ma un campionato era toccato anche alla Sampdoria di Vialli e Mancini. E alla Juve c’era Roberto Galia. E Totò Schillaci con i suoi occhi fuori dalle orbite che dicevano tutto e ci aveva fatto sognare durante le notti magiche inseguendo un gol. E poi c’erano Maradona e Van Basten e le treccioline di Gullit e il rigore sbagliato da Roberto Baggio in quel giorno triste di Pasadena. I cartoni animati come Holly e Benji, I cavalieri dello zodiaco e tanti altri. In una puntata non succedeva nulla e per risolvere una situazione ce ne volevano almeno dieci. I più fortunati avevano anche il Gameboy oppure il Sega Master System, alcuni persino il Mega drive.
Non c’era internet e per vedersi bisognava davvero uscire si casa. La musica la ascoltavi con il Walkman e quando la cassetta si incastrava usavi una matita (o una bic) per rimettere a posto la situazione. D’estate tutti volevano i ghiaccioli, che potevi anche comprare con un paio di gettoni telefonici, alla Coca-Cola. Che poi non era davvero Coca-Cola. La Coca Cola, Coca-Cola sì, che ti faceva impazzire, con tutte quelle bollicine. Come cantava Vasco dieci anni prima dell’avvento degli anni ’90, vincendo il Festivalbar che per alcuni era meglio del Festival di Sanremo. E non c’erano quella light o quella zero. No, si beveva quella vera. E nonostante tutto siamo ancora qui a illuminarci ogni volta che sentiamo che John Frusciante è tornato nel gruppo perché ci fa sentire meno vecchi di quello che stiamo diventando.