È un peccato che la notizia della visita del ministro degli Esteri Luigi Di Maio in Libia sia stata già consumata, come se da sola avesse risolto tutto. La posta in gioco sulla sponda opposta del Mediterraneo è così alta per il nostro Paese che ci sarebbe bisogno di stimolare un dibattito nazionale in queste ore, su quale iniziativa potrebbe prendere l’Italia per evitare che la Libia, che di fatto confina con il nostro Paese, sprofondi in un conflitto fratricida in stile Somalia.
Sarebbe in totale malafede chi non riconoscesse al viaggio del ministro Di Maio a Tripoli, Bengasi e Tobruk un merito: quello di aver rilanciato l’iniziativa politica e diplomatica dell’Italia verso il nostro vicino più problematico. Dopo 15 mesi sprecati tra la rottura con la Francia, la propaganda di Salvini e il totale disinteresse da parte del precedente inquilino della Farnesina, l’ex ministro Enzo Moavero Milanesi, la politica italiana con la missione di Di Maio ha battuto un colpo sul principale dossier della nostra politica estera. Lo ha fatto in modo tempestivo, costruendo prima una unità europea al vertice di Bruxelles, tra Conte, Macron e Merkel e dando la disponibilità dell’Italia a proporre una soluzione di mediazione alle parti in causa.
Sarebbe però una ingenuità totale pensare che basti un viaggio a rimettere l’Italia al centro dei complicati giochi regionali che avvengono in e sulla Libia. Ormai nel gioco Russia e Turchia non si limitano a fare da protettori lontani di una delle fazioni in campo, ma hanno speso la carta militare. Per questo, alcuni autorevoli commentatori hanno liquidato la missione con un too little too late: i 15 mesi passati durante il governo Lega-M5S, rispetto ai quali Di Maio e Conte non possono dirsi estranei, hanno confinato l’Italia in un angolo marginale dal quale è difficile uscire. Il vuoto lasciato in quel periodo dall’Italia è stato riempito da altre potenze che hanno destabilizzato ulteriormente la situazione.
Chi critica lo fa con cognizione di causa: in un contesto magmatico come quello libico perdere peso diplomatico, cedere terreno a avversari più determinati e con meno scrupoli dell’Italia può essere fatale. Al tempo stesso, chi fa politica non può limitarsi a constatare la situazione presente, soprattutto quando la posta in gioco per la nostra sicurezza nazionale è così alta. Possiamo arrenderci a consegnare le chiavi dell’accesso all’Italia a Russia e Libia? Possiamo rassegnarci a lasciare a Putin e Erdoğan la decisione su quando aprire i rubinetti dei flussi illegali di migranti e su quando chiudere i rubinetti degli approvvigionamenti energetici? Per questo è necessario aprire una discussione su possibili scenari operativi per l’Italia.
In Libia i principali attori giocano una politica di potenza. È questo uno sport che il nostro Paese, ultima delle grandi potenze o prima delle piccole potenze, non è più abituato a giocare. La prima cosa da fare è attrezzarci per questo, giocando non solo come Italia, ma come Europa. È cruciale recuperare unità di intenti con la Francia, utilizzando la disponibilità tedesca a fungere da punto di mediazione tra i due litigiosi cugini. La rottura con la Francia ci è costata carissimo e sta costando all’Europa la marginalizzazione. Le fazioni libiche hanno scelto alleati con molte meno remore e molta più capacità di dispiegare forze militari sul terreno di quanto non possano le democrazie occidentali. Non basta l’incontro di Bruxelles, ovviamente. Dobbiamo ricostruire la capacità di pesare la nostra influenza e farla fruttare, attraverso un lavoro politico e diplomatico continuo.
L’idea di un inviato speciale sulla Libia, che possa girare tra le capitali delle potenze coinvolte, negoziando un accordo, è una idea da portare avanti, con l’imprimatur europeo. L’inviato speciale non deve essere solo italiano, ma deve avere la capacità di rappresentare la posizione dei principali paesi europei. Infine, non si gioca alla politica di potenza senza strumenti coercitivi. Per quanto l’embargo ONU sulle armi non sia rispettato e una risoluzione del Consiglio di Sicurezza possa sembrare lontana e difficile, questi sono gli unici strumenti reali per fermare il conflitto. Gli alleati americani vanno allertati che ci sono questi rischi. A un anno dalle elezioni presidenziali non conviene a nessuno, tanto meno a Trump, che la Libia diventi la Somalia degli anni Novanta.