Abbasso l’industria! Viva l’industria! Come si esce da questo ping pong dialettico tra due posizioni che pretendono entrambe di avere ragione? Come si fa a convincere qualcuno che i problemi vanno risolti non soffiando sul fuoco delle ansie collettive e generalizzate, bensì cercando soluzioni razionali, magari imboccando strade che esperienza e scienza suggeriscono essere quelle giuste? Mancano circa tre settimane al 2020, che viene anticipato come l’anno dell’economia circolare. Tuttavia, gli auspici suggeriscono forti dubbi che sarà veramente così.
In questi giorni agenzie, osservatori e centri studi italiani sfornano a ciclo continuo rapporti e dossier in cui si legge che, in buona sostanza, le cose non vanno poi così male, e che l’industria tutto sommato sta facendo la sua porca figura nel farci respirare un’aria più pulita, sotto un cielo sempre più blu. È il caso de “l’Italia del riciclo”, rapporto condotto da Fise Unicircular e dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile, che pone il nostro Paese come terzo in Europa per il recupero degli imballaggi. In fatto di carta, vetro, plastica, legno, alluminio e acciaio, siamo un modello da seguire. Ancor meglio facciamo secondo l’Enea (l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, in altre parole il Mise), che ci assegna la medaglia d’oro nel confronto tra le cinque più importanti economie europee (Italia, Uk, Francia, Germania e Spagna). La nostra economia circolare è un’eccellenza in fatto di produzione, consumi, gestione dei rifiuti e delle materie prime e innovazione. Infine, e in maniera più di chiunque altro esplicita, l’Agenzia europea dell’ambiente, conferma che le cause primarie dell’inquinamento atmosferico sono da attribuire all’agricoltura e ai trasporti su strada. E che l’industria è solo una contributor di terz’ordine. Insomma, l’industria made in Italy ha un animo green da cui i nostri partner stranieri possono soltanto imparare.
Eppure, nonostante questa indigestione di dati, analisi e studi, il clima anti-industriale in Italia non è mai stato così caldo. Il problema è che non si tratta di limitarsi a scalfire un’incrostazione ideologica. Questo è l’ostacolo maggiore, ok, che però è retto da un lato dalla responsabilità delle imprese a non saper comunicare in modo chiaro e semplice quello che fanno, dall’altro poggia su una governance nazionale, attenta esclusivamente ad assecondare paure e ansie dell’opinione pubblica.
Le cause primarie dell’inquinamento atmosferico sono da attribuire all’agricoltura e ai trasporti su strada
Quando c’è un problema si fa presto a trovare un capro espiatorio. Nel caso di inquinamento, climate change e apocalisse ambientale, la “ggente” è andata facile facile a prendere chi in passato, in effetti, qualche responsabilità di danni l’ha avuta. Amianto e diossina sono le tragiche madeleine che rievocano nella memoria collettiva un passato in cui la corsa all’industrializzazione, per quanto proiettata al benessere, è stata anche lastricata di morti e disgrazie. Parlare però oggi di un’industria che è causa di tutti i mali sarebbe come indicare negli imprenditori i padroni (cattivi) e nella classe operaia gli schiavi (buoni) dell’età moderna. Anacronistico. E pure analiticamente scorretto. Quindi, in una parola, ideologico.
Certo, il mondo produttivo ci mette del suo. Il fatto che il ping pong si limiti a un “Abbasso l’industria! Viva l’industria!” lascia intendere che la reazione di chi si difende è uguale e contraria a quella di chi attacca. C’è un vizio di comunicazione e quindi ascolto reciproco da entrambe le parti.
Tuttavia, il sentimento anti-industriale trova un solido sostegno nelle istituzioni, specie quando al vertice c’è chi fa della paura il suo cavallo di battaglia, per conservare il consenso, per non cambiare nulla. Lo si legge negli stessi rapporti citati qui sopra, la Pubblica amministrazione – sindaci, istituzioni regionali e altri rappresentanti di enti locali – è affetta da una sudditanza psicologica nei confronti dei propri elettori. La piazza è fatta di voti e come tale indirizza chi prende delle decisioni. È così che nasce una burocrazia fatta di procedure lunghe e costose, normative poco chiare e che cambiano a treno in corsa, di cui sono vittime le imprese, spesso Pmi, che vedono strozzati i loro progetti innovativi. L’ex Ilva a Taranto è solo la più nota punta di un iceberg. Certo, lì il dramma coinvolge una città di grosse dimensioni, una multinazionale, una Regione controllata da un Masaniello (Michele Emiliano) a sua volta erede di un Cola di Rienzo (Nichi Vendola).
Il sentimento anti-industriale trova un solido sostegno nelle istituzioni. È così che nasce una burocrazia fatta di procedure lunghe e costose, normative poco chiare e che cambiano a treno in corsa
E poi c’è la galassia pentastellata che, da sempre, identifica in Taranto la sua Armageddon per il trionfo eterno. Tuttavia, se appena spostiamo i riflettori sulla plastica, oppure su altre vicende meno note, notiamo che il canovaccio non cambia. Penso a un caso, anni fa, di negata apertura, da parte di Regione Lombardia (Giunta Maroni), di un impianto per il recupero di pneumatici fuori uso con metodo pirolisi nell’Oltrepo pavese, oppure alla normativa regionale, sempre in Lombardia, ma con Giunta Fontana, che limita lo spandimento di fanghi di recupero urbano, inevitabile per evitarne l’incenerimento, necessario per la concimazione del suolo a uso agricolo. Rapidamente, entrambe le storie vedevano imprenditori impegnati a dare nuova vita a un rifiuto, secondo il processo dell’end of waste e attraverso progetti green di riciclo e riutilizzo. Ma in entrambi i casi, la burocrazia ha dato ragione alla piazza. Sei un imprenditore? Beh, come si diceva al militare: devi morire gonfio! Se la piazza dice che quell’impianto industriale inquina e uccide, non c’è santo che tenga. L’istituzione esegue e puoi star sereno che l’impianto non si fa. Boh! A pensarci bene ci potrebbero essere pure gli estremi per appellarsi all’articolo 41 della Costituzione, quello sulla libera iniziativa economica.
Non se ne esce appunto. E non soltanto perché Greta Thunberg, o chi per lei, è stata brava. È tornata dalle Americhe e ora il suo Verbo è di facile strumentalizzazione nel Vecchio continente. Il problema è molto più capillare. Provinciale. Banale. Si insiste a guardare le cose in chiave elettorale. E ci si dimentica che industria, lavoro, futuro, ambiente eccetera hanno poco a che fare con un voto. L’anno che sta arrivando sarà quello dell’economia circolare. Dicono. Se così fosse, sarà bellissimo. Magari non come il 2019.