Tutti possono diventare un grande manager. E soprattutto, tutti hanno diritto ad averne uno. A dirlo, fin dal titolo, è l’ultimo libro di Victoria Roos Olsson: Tutti si meritano un grande manager: le sei regole fondamentali per guidare un team, edito da FrancoAngeli (2019). Esperta di sviluppo della leadership e consulente per FranklinCovey, la Olsson da più di 20 anni lavora come formatrice, anche per manager di primo livello – cioè professionisti che troppo spesso si ritrovano, dall’oggi al domani, a guidare un team senza avere ricevuto una preparazione specifica.
Per aiutarli ha deciso, insieme ai colleghi Scott Miller e Todd Davis, di raccogliere in un unico volume quelli che, dopo anni di esperienza, interviste, confronti e riflessioni, considera i punti necessari per diventare un bravo leader. Ne ha trovati sei, tutti decisivi. Al primo posto c’è il mindset, la mentalità: chi viene promosso deve cominciare a ragionare in modo del tutto diverso rispetto a come faceva prima. Poi l’importanza di organizzare incontri individuali di confronto con i membri del team. Al terzo posto, la capacità di organizzare la squadra, con incarichi e scadenze chiare. La quarta regola prevede di creare una “cultura del feedback”, una risorsa necessaria per far crescere le persone, mentre la quinta spiega come guidare il team nelle fasi di cambiamento. Infine, il libro insegna il corretto modo di gestire il tempo libero per il benessere psicofisico di tutta la squadra.
Un lavoro importante. Da dove siete partiti?
Lo spunto principale lo ha dato uno studio apparso sulla Harvard Business Review, che ci ha molto colpito. Diceva che i manager, in media, assumono il primo ruolo da leader a 30 anni. Ma non ricevono un training adeguato prima dei 42. Un buco di 12 anni! In quali altre professioni è concepibile che accada? Si può immaginre un medico a cui dicono: “Provi questo mestiere per 12 anni, poi ti diamo la formazione”. Se sarai ancora lì.
Sarebbe impensabile.
Esatto. Per questo i primi destinatari del libro sono proprio loro, i manager di primo livello. Si tratta di figure cruciali per le aziende: mantengono il contatto con i clienti e trasmettono ai lavoratori, anche esterni, la cultura aziendale. Abbiamo pensato a un volume agile, senza tanta teoria ma con le informazioni principali. Un manuale. Doveva essere qualcosa di immediato. È il tipo di strumento di cui, stando a quanto abbiamo capito lavorando, girando per il mondo e incontrando manager per FranklinCovey, si sentiva di più la mancanza.
Al primo posto avete messo il cambiamento di mindset. Perché?
Eravamo tutti d’accordo su quello. Le nostre analisi coincidevano. Tra gli aspetti più critici del diventare leader c’è proprio il cambiamento di paradigma. Il nuovo capo è stato promosso grazie a una mentalità, un mindset, efficace per il lavoro che faceva. È più che naturale che pensi di dover continuare su quella strada. Invece è un errore: nel nuovo ruolo, serve un nuovo atteggiamento mentale. Chi è appena diventato leader arriva abituato a pensare solo a se stesso e al proprio operato individuale. Invece gli si chiede una cosa molto diversa: guidare le altre persone, raggiungere i risultati attraverso di loro, dare i giusti feedback organizzando una squadra.
Prima di tutto, un bravo leader è una persona che vuole essere un bravo leader. Deve voler guidare e far crescere le persone. Deve saperle coinvolgere, gratificare e correggere
È interessante che abbiate compreso, tra le regola fondamentali, anche quella di tenere regolari incontri individuali con i membri del team.
In tanti si stupiscono. Eppure è uno strumento fondamentale. Se si impara a padroneggiare questa tipologia di meeting, se si adotta – anche qui – un nuovo punto di vista nel loro utilizzo, allora anche questi incontri si trasformano in qualcosa di nuovo e costruttivo. Tante persone che ho incontrato mi hanno detto: “Ma io non ho tempo da perdere”. La mia risposta è sempre: “È proprio il contrario. Se fai bene questi incontri, il tempo lo guadagni”. Perché consente di evitare problemi o emergenze dell’ultimo minuto, sempre dispendiose in termini di ore di lavoro ed energia. Oltre al fatto che, in questo modo, si aumenta l’engagement dei membri del team.Attraverso questi suggerimenti sembra emergere il ritratto del bravo leader. Da cosa lo si può riconoscere? Quali sono le caratteristiche?Prima di tutto, un bravo leader è una persona che vuole essere un bravo leader. Deve voler guidare e far crescere le persone. Deve saperle coinvolgere, gratificare e correggere. È un mestiere che richiede fatica, impegno e passione. Per questo, prima di tutto, occorre che lo si voglia fare. Si dice che “leader si nasce”. Non sono così sicura che sia vero. Anzi, nella mia esperienza ho conosciuto persone straordinarie che, all’inizio, si trovavano in grande difficoltà e solo dopo aver ricevuto la giusta formazione sono diventati grandi leader. Non sapevano cosa fare e, peggio ancora, non sapevano come farlo. Anche io, se penso a come ero al mio primo incarico, vedo una differenza. È una questione di apprendimento: bisogna voler essere leader, e bisogna voler imparare ad esserlo.
Forse le persone più interessate a diventare leader sono anche quelle già predisposte.
Non saprei. Però – e questo deve essere chiaro sempre – anche quelli più dotati devono imparare.Tra le regole sembra molto importante quella della gestione del cambiamento. Come si comporta in questi casi un buon manager?
È una questione molto importante perché, di questi tempi, è molto sentita. Il cambiamento è sempre più veloce e diffuso. Il leader di una volta era quello che cercava di proteggere il team dal cambiamento, quasi mettendosi in mezzo e creando una barriera. Oggi agire in questa maniera significherebbe soltanto danneggiare la squadra e, di conseguenza, il lavoro. Bisogna, invece, guidare tutti ad abbracciare il cambiamento, impostandolo e praticandolo per primi. E insegnando a trasformarlo in una opportunità. Non è semplice, le persone sono restie e sospettose di fronte alle novità. Ma in questi tempi è diventato cruciale.Bisogna guidare tutti ad abbracciare il cambiamento, impostandolo e praticandolo per primi. E insegnando a trasformarlo in una opportunità
Nel libro fornite anche uno schema da seguire in questi casi, sembra molto utile.
Suddividiamo il cambiamento in quattro fasi: la prima è quella dello status quo, cosiddetta della “normalità”. A questa segue quella della “disruption”, che comincia non appena il cambiamento viene annunciato. Entrano in scena con forza le tensioni emotive, è un momento di grande stress e incertezza. Si può superare facendo squadra e condividendo le informazioni. Poi c’è la fase dell’adozione: quando la resistenza comincia a placarsi e si comincia una fase di adattamento alla nuova realtà. Sul lavoro si vedrà un primo miglioramento dei risultati. Infine, il superamento del cambiamento, quando la performance migliora. Si è usciti dal tunnel e i risultati dovrebbero essere superiori alla fase che precedeva il cambiamento. L’importante è gestire tutto con rapidità e stando in superficie. Sono cose che vanno risolte nel più breve tempo possibile.La sesta e ultima regola riguarda la sana gestione del tempo e dell’energia, per tutelare il benessere psicofisico. Forse dovrebbe essere messa al primo posto, no?
Ha ragione. Essere in grado di dosare il tempo e le energie è fondamentale, quasi una precondizione necessaria per fare poi bene tutto il lavoro. Ma le regole non sono disposte secondo una classifica. È una visione circolare: ognuna di loro è collegata alle altre, si parlano tra loro. Per questo motivo stare in salute e avere un equilibrio tra lavoro e vita privata è essenziale. I leader devono imparare a farlo per sé. E, cosa ancora più importante, devono imparare a farlo fare anche ai membri del loro team. Richiede una sensibilità speciale, oltre alla capacità di immaginare bisogni e desideri diversi dai propri.Queste sei regole hanno un aspetto generale. Ma possono essere applicate in tutte le culture del mondo?
Sì. Ho lavorato in 10 Paesi diversi e quattro continenti. La mia esperienza mi suggerisce che siamo più simili di quanto si tenda a credere. Ci sono differenze superficiali, ma nel profondo ci somigliamo. Tra aspirazioni, frustrazioni, desideri, sogni e gratificazioni, non cambia molto. Per cui credo che, in linea di massima, queste regole possano funzionare ovunque. Certo, con alcune cautele. In certe culture, per esempio quelle asiatiche, sarebbe assurdo dare un feedback al capo – cosa che invece noi raccomandiamo di fare. Bisogna adattarsi, reinventarle con creatività ma senza snaturarle. E senza offendere il contesto culturale in cui ci si trova.