Ma come avrà fatto questo Conte a conquistare Di Maio e Zingaretti, Travaglio e Scalfari, Trump e Macron, e via ossimorizzando? Come un Vautrin che si reincarna sempre in nuove figure, pur senza la fantasia di Balzac, l’avvocato grillino viene ora rivestito di panni addirittura socialdemocratici, evoluzione scalfariana del più generico “punto di riferimento fortissimo” affibbiatogli dal segretario del Pd, quasi – o forse senza quasi – un’investitura a leader/premier.
Anche se ieri Zingaretti, secondo il più classico dei meccanismi di comunicazione politica (spararla grossa, vedere l’effetto che fa, smorzare), ha puntualizzato: «Conte è un pezzo di questo campo di centrosinistra che si sta riorganizzando. Su chi guiderà il prossimo governo, se ci sarà, lo vedremo».
Intanto “Nicola” ha caricato d‘inchiostro la penna del fondatore di Repubblica: «Il desiderio di Zingaretti consiste nel determinare la linea che Conte ha preso e che si spera continuerà a seguire fino alla fine della legislatura: una politica che riflette una linea favorevole al socialismo democratico». Un novello Willy Brandt, un emulo di Olof Palme, un lontano discepolo di Bernstein, “l’amico Giuseppi”? Se così fosse, con Conte il centrosinistra italiano avrebbe finalmente risolto il problema che lo dilania da quando esiste, e cioè quello della leadership: sotto la guida dell’avvocato si andrebbe prima o poi allo scontro finale con la destra salvinizzata. Ma nel nome di che, non è chiaro.
Curiosamente,ma non tanto, è la stessa lettura di Marco Travaglio, che pure di Scalfari è politicamente, professionalmente e umanamente agli antipodi. Il Fatto è da tempo l’house organ del premier, i bei tempi sono lontani. Lo notiamo non per polemica ma perché proprio qui c’è tutto il disorientamento di un’area politica che fa riferimento a Repubblica e per molti versi allo stesso Partito democratico di Nicola Zingaretti.
Si dice che con l’endorsement al premier in carica il leader del Nazareno abbia voluto tagliare la strada a un Luigi Di Maio animato dal desiderio di andare alle urne rovesciando il governo, guidato appunto da Conte, e che in ogni caso non intende “regalare” il premier ad altri. Plausibile. Ma ha fatto due errori. Il primo è quello di tirare Conte da una parte, forse mettendolo in imbarazzo e comunque facendogli perdere quella posizione super partes che gli consente di guidare una coalizione eterogenea a anzi litigiosa. Il secondo errore sta nell’indurre il proprio elettorato a credere che il centrosinistra possa essere guidato dalla stessa persona che fece il governo con Matteo Salvini, governo che cadde per mano non sua ma del capo leghista (altrimenti starebbe ancora lì), e che ha disinvoltamente cambiato spalla al fucile malgrado proprio il laudator di oggi Zingaretti avesse inizialmente posto il veto. Al punto che ipotizzò di andarsene dopo aver dato il via al Conte bis, emulando Bruno Trentin quando lasciò la Cgil dopo aver firmato, per senso di responsabilità, l’accordo che aboliva la scala mobile.
Sostenere Conte è come se il Pd rinunciasse a candidarsi a guidare il Paese, ritagliandosi il ruolo di portatore d’acqua. E non è il solo paradosso della vicenda.
Per continuare, va detto che adesso è Matteo Renzi, l’uomo che ha inventato questo governo, ad attaccare il premier: «Se Conte, per Zingaretti, è l’uomo su cui puntare in futuro, per noi invece non lo è e non lo sarà mai». Perché? «Ricordo le frasi sul populismo, il giustizialismo, sulla Diciotti, sul reddito di cittadinanza, su quota 100». Già, per un anno e mezzo l’Avvocato del popolo è stato anche avvocato di Salvini, nel caso della Diciotti e verosimilmente in quello della Gregoretti, per non parlare degli osanna ricevuti negli happening di una volta dei Cinque Stelle: in fondo è stata la faccia pulita del vaffa. Cioè esattamente il contrario di una visione progressista e garantista.
Il “Conte Zelig”, come venne definito da qualcuno, sarebbe dunque diventato da leader del grillismo di destra a ecumenico pastore di un riformismo insapore capace per esempio di surfare fra Salvini e Lamorgese in ossequio a una pratica tecnicamente trasformistica, affatto accompagnata da una qualche esplicita autocritica. Il tutto è un’ottima ma triste metafora di una politica ridotta a mera tattica, a scambio di figurine, quello che si fa da ragazzini. Ma, per dirla con Zingaretti, «vedremo». Al peggio non c’è mai fine.