Uno dei luoghi comuni più popolari sulla politica statunitense è quello secondo cui, alla fine della fiera, tra i due principali partiti non ci siano poi tutte queste differenze. […] Non è così, ovviamente, ma questa convinzione non è basata sul nulla. […] Gli americani che alle elezioni presidenziali del 1996 si trovarono a scegliere tra Bill Clinton e Bob Dole, in effetti, non avevano davanti due opzioni così lontane tra loro: le differenze tra il più moderato dei Democratici e il più moderato dei Repubblicani c’erano, ma non erano particolarmente pronunciate. Eppure già allora negli Stati Uniti avevano cominciato a muoversi alcune forze – politiche, sociali, mediatiche, tecnologiche – che negli anni seguenti avrebbero portato a una fortissima divaricazione dell’opinione pubblica, alla radicalizzazione di segmenti di popolazione un tempo equilibrati se non addirittura paciosi, allo sdoganamento di comportamenti e posizioni politiche fin lì largamente considerate estremiste e violente, oppure velleitarie, minoritarie, perdenti. E infatti, nel giro di appena vent’anni è cambiato tutto.
Gli americani che alle elezioni presidenziali del 2016 si trovarono a scegliere tra Donald Trump e Hillary Clinton avevano davanti due opzioni e due idee di paese radicalmente diverse. Sull’immigrazione, per esempio, uno dei temi più delicati e controversi della nostra epoca, un abisso separava le proposte dei due candidati. […] Soltanto una cosa accomunava queste due idee di paese così lontane tra loro: che fossero o meno condivisibili, erano entrambe irrealizzabili. Erano state messe insieme per sedurre un elettorato che nei vent’anni precedenti era diventato sempre più bellicoso, frustrato e stufo dei compromessi. Ma non lo era diventato da solo.
L’intera architettura istituzionale statunitense si basa sul compromesso tra avversari. Molto più di quanto accada in gran parte dell’Europa, Italia compresa, dove teoricamente un governo sostenuto da una salda maggioranza parlamentare può andare avanti per anni senza dover mai mettersi d’accordo con l’opposizione. Dato che negli Stati Uniti non esiste un legame fiduciario tra il governo e il Parlamento, entrambi eletti dal popolo in modo diretto e indipendente l’uno dall’altro, è molto frequente che nello stesso momento un partito controlli la Casa Bianca e un altro controlli il Congresso, così come che i due rami del Congresso – Camera e Senato – abbiano maggioranze diverse. […] Nell’idea dei Padri fondatori questo funzionamento è una virtù del sistema e non un suo limite, ed effettivamente nel corso dei secoli ha contribuito in modo significativo a trasformare gli Stati Uniti in un paese che – seppur pieno di difetti e problemi, ma chi non ne ha? – può vantare la più grande e prospera economia del mondo, la più vasta e sofisticata influenza culturale, la più distruttiva potenza militare, il più avanzato progresso scientifico e tecnologico. A un certo punto, però, qualcosa si è inceppato. […]
«Uno dei più grandi problemi che abbiamo nel Partito repubblicano è che non vi incoraggiamo abbastanza a essere cattivi. Vi incoraggiamo invece a essere gradevoli, obbedienti, leali e fedeli, tutti aggettivi da boy-scout che vanno benissimo attorno a un fuoco ma che non sono adatti alla politica». Nel giugno 1978 ad Atlanta, in Georgia, un giovane candidato al Congresso di nome Newt Gingrich rivolse un comizio a un’associazione di studenti universitari iscritti al Partito repubblicano. Gingrich aveva 35 anni, era un giovane docente universitario e un oratore colto e brillante, ma aveva provato per due volte a farsi eleggere alla Camera e aveva fallito entrambe le volte. La nuova generazione dei Repubblicani, disse quel giorno al suo giovane pubblico, avrebbe dovuto «scatenare l’inferno», smetterla di fare i «carini» e trattare finalmente la politica per quello che è: una guerra per il potere in cui tutto è lecito.
[…] Per essere un novizio, Gingrich era arrivato a Washington con le idee molto chiare. Le elezioni presidenziali sarebbero state sempre contendibili e aperte, ma per tornare a controllare il Congresso – in mano ai democratici fin dagli anni Trenta, con due sole brevi interruzioni – i repubblicani avrebbero dovuto far saltare il tavolo. Invece che sperare di aumentare lentamente il loro potere contrattuale in modo da ottenere compromessi più vicini alle istanze dei loro elettori, avrebbero dovuto sabotarli, i compromessi. Intralciare le trattative. Seminare zizzania tra chi dialoga. Tendere trappole per aumentare la sfiducia reciproca. Cogliere ogni occasione per piegare le regole del gioco a proprio vantaggio. Sfruttare i media per alzare il livello dello scontro dialettico. I Repubblicani, insomma, avrebbero dovuto far saltare i cardini su cui aveva poggiato la politica parlamentare fino a quel momento: smettere di far funzionare il Congresso, renderlo impotente, litigioso e sgradevole, per poi – attraverso un’urlata campagna populista contro la politica e i palazzi di Washington – incassare i dividendi del disgusto della popolazione, spazzare via la classe dirigente precedente e costruire una nuova maggioranza, che fosse radicalmente conservatrice e soprattutto, per l’appunto, «cattiva».
L’esecuzione del piano fu piuttosto rapida.
da Questa è l’America, di Francesco Costa, (Mondadori, 2020)