Aggrappati a un esecutivo che non ha la competenza dei governi tecnici né la vision di quelli politici ma solo un tantinello degli uni e degli altri, ecco che i protagonisti del Conte 2 imboccano come possono la strada scoscesa di un difficile gennaio con la tattica di sempre: smussare, rinviare, diluire. Emblematico il tono dell’intervista di Giuseppe Conte a Repubblica: avanti piano, senza scosse. E senza novità. Malgrado le emergenze – in primis, l’aggravarsi del quadro internazionale – il premier pare estremamente guardingo, se non addirittura forlaniano.
Il punto fermo è che nessuno ha voglia di spezzare un incantesimo che tutto sommato ha il pregio di esorcizzare il ritorno della destra. Così ci si aggrappa alla zattera delle Meduse (Conte) come i naufraghi del quadro di Théodore Géricault. Perché Nicola Zingaretti, Luigi Di Maio e anche Matteo Renzi hanno bisogno di una cosa sola: di tempo.
Tempo per riparare le proprie barche – quello più nei guai di tutti in questo senso è Di Maio – tempo per continuare il galleggiamento in vista magari di una navigazione più tranquilla. Per motivi diversi, sono tutti leader perennemente in affanno, chi più chi meno. Intrappolati nelle sabbie mobili di sondaggi che non cambiano (tranne che per Di Maio, lui si che ha un problema più grave) e sospettosi l’uno dell’altro: una riunione tutti insieme non si farà mai.
In questo quadro per primo si è mosso Zingaretti, leader di quel “partito della stabilità” che fa perno sul Pd ma parla a quei tanti ambienti, soprattutto economici, che aborriscono il ritorno di Matteo Salvini, un treno tranquillo la cui locomotiva è ovviamente al Quirinale. Bravo Zingaretti, dunque, a fare la prima mossa, a rischio di sfidare il buonsenso: incontrare il ministro degli Esteri nelle ore più calde della politica internazionale per parlare di sbarramento al 5% ha un che di incongruo, e tuttavia era necessario per avviare il motore della più lenta verifica della storia.
Detto questo, il governo si regge su un “equilibrio del terrore” – come si diceva ai tempi della guerra fredda – quello delle urne, più che su una spinta positiva, fattiva, ottimistica. Di qui promana quella sorta di ineluttabile mestizia che avvolge l’operato del Conte 2, come se i quattro partiti della maggioranza fossero costretti a governare pur senza un benché minimo afflato unitario.
Per il resto, battistianamente, meglio evitare le buche più dure: sulla prescrizione, per esempio, l’aria è quella di diluire i tempi della mediazione (ma ieri Giuliano Pisapia ha cercato di stanare un Pd ancora cauto) e forse così anche sulla revoca della concessione ai Benetton.
Renzi, che morde il freno, più di tanto non può fare, se non esternare urbi et orbi la sua permanente insoddisfazione per come vanno le cose. Quanto a LeU, pur di mantenere questo quadro politico accetterebbe qualunque cosa, anche uno sbarramento non al 5, ma al 50%: il modo per rientrare in Parlamento si troverà.
Diciamo poi che tutto è bloccato fino alle elezioni in Emilia-Romagna e che le sorti del governo, del Pd, della legislatura sono di fatto nelle mani di Stefano Bonaccini, la cui vittoria darebbe ossigeno a tutte e tre le cose. Un Bonaccini vincente diventerebbe il salvatore del governo e del Pd e certamente acquisirebbe un peso enorme nel suo partito che un domani potrebbe dargli la spinta a una candidatura alle primarie (e forse è per questo che Zingaretti è tentato dal bruciare i tempi convocandolo per marzo-aprile).
Infatti, lo schema del Pd è abbastanza lineare. Vincere in Emilia Romagna, assistere ai guai di Di Maio, mandare Salvini a processo, lanciare qualche proposta specie in materia economica (magari su quota 100), vincere le successive regionali anche grazie a Michele Emiliano e Vincenzo De Luca, contare sulle nuove divisioni nella destra (leggi Meloni versus Salvini), farsi forte dell’amicizia di Conte e insomma scavallare l’estate in buona salute. Sperando sempre – piccolo particolare – che non scoppi la guerra, già.