Cancel (the book tour) cultureAutrice portoricana riceve minacce di morte perché ha scritto una storia di messicani, l’editore si scusa con i troll


L’incredibile caso di Jeanine Cummins, accusata di appropriazione culturale per aver scritto nel romanzo “Il sale della terra” di immigrati di nazionalità diversa dalla sua. Annullate le presentazioni dei libri. Bei tempi quando erano gli ayatollah a fare le fatwa, non la cultura dominante


“Ho la cittadinanza statunitense. Come molti abitanti di questo paese, vengo da una famiglia di cultura ed etnia mista. Nel 2005 ho sposato un immigrato senza documenti. […] Perciò si potrebbe dire che sono coinvolta direttamente in questa storia”.

Ho un amico che chiama frasi come quella citata quissù “premessite”. È un amico che scrive sui giornali, e ha individuato la malattia perché, come tutti, ne soffre. Esempi di possibile premessite in articoli su vari temi. “Premesso che non voterei mai per Matteo Salvini, mi chiedo perché abbiate per anni alimentato col vostro consenso le molestie al citofono allorché fatte da troupe televisive, per poi individuarci un reato quando a molestare è un senatore”. “Premesso che non ho niente contro i grassi, non mi sembra un’idea felicissima farli andare in tribunale a costituirsi parte civile contro quelli che gli hanno detto che sono grassi”. “Premesso che mi dissocio dai nazisti dell’Illinois, Barbra Streisand come oggetto del desiderio dei meglio fighi di Hollywood non mi pare convincente”. Eccetera.

“Ma la verità è che il mio interesse personale è più complicato di così. Ci sono altri due fattori che probabilmente hanno stimolato il mio interesse per la questione più di quanto non abbia fatto lo status di immigrazione di mio marito. Il primo: quando avevo sedici anni, due mie cugine furono brutalmente violentate da quattro sconosciuti e gettate da un ponte a St. Louis, nel Missouri. Anche mio fratello venne picchiato e buttato giù dal ponte”.

Un giorno, tutto è diventato memoir. È accaduto in un momento imprecisato. Molto dopo Omero, o dopo Flaubert, o dopo Tolstoj. Cioè d’un tizio che ha sfruttato le sciagure di chi era andato a morire in guerra e non poteva difendersi da stereotipi o dicerie (mentre lui se ne stava comodo a casa con la scusa d’una cecità tutta da appurare: mica si facevano le inchieste sui falsi invalidi, ai tempi); e di due maschi bianchi privilegiati che si sono culturalmente appropriati dell’identità femminile mentre le storie d’adulterio dal punto di vista delle donne non venivano scritte dalle donne. Un giorno abbiamo deciso che non eravamo più in grado di capire nulla che lo scrittore non avesse provato personalmente, di credere a nulla che non avesse vissuto, di accettare nulla che non fosse l’io. Non l’io narrante: l’io e basta.

“Sono profondamente consapevole del fatto che le persone che arrivano al confine meridionale degli Stati Uniti non sono una massa senza volto con la carnagione scura, ma singoli individui, con storie e origini e motivazioni uniche. Sento questa consapevolezza nel midollo, nel mio Dna”.

Quella storia del “non avrai altra storia all’infuori di te” non vale solo per gli scrittori, nella cultura americana: se a una festa in maschera ti travesti da qualcuno d’un’altra razza, cioè se ti travesti tout court, invece d’accontentarti d’essere la maschera di te stesso, verrai messo al bando dal consesso sociale. Di recente il conduttore d’un podcast ha chiesto a Robert Downey Jr. se si potrebbe oggi girare Tropic Thunder, un film comico del 2008 in cui Downey recitava un bianco che si faceva iperpigmentare la pelle per fare la parte del nero. Si potrebbe produrre un film così, in un’epoca in cui il primo ministro del Canada non ha più l’ottima reputazione di prima da quando s’è scoperto che a una festa dell’università osò travestirsi da indiano? Era una domanda retorica.

“Ecco i miei motivi, dunque. Tuttavia, quando ho deciso di scrivere questo libro, temevo che la mia condizione di privilegiata mi rendesse cieca a certe verità, temevo di capire male le cose, come forse è successo comunque. Da non migrante e non messicana, credevo di non avere il diritto di scrivere un libro ambientato quasi interamente in Messico, tra i migranti. Avrei voluto che lo scrivesse qualcuno con la carnagione un po’ più scura della mia”.

La premessite di Jeanine Cummins avrebbe dovuto prevenire le polemiche (illusa), e viene dopo il suo romanzo. Alla fine di Il sale della terra (è appena uscito, pubblicato da Feltrinelli), c’è una “Nota dell’autrice” da cui sono tratti gli stralci che vi ho ricopiato in corsivo. Sono righe di chi sa che si muove in un mondo folle, in cui l’accusa d’appropriazione culturale è distribuita con una certa disinvoltura. È ingenua – pensa che basti dire «Mi sono posta il problema di non essere un’immigrata messicana, nello scrivere una storia d’immigrazione messicana», per prevenire i «Come osi non essere i tuoi personaggi di fantasia» – ma è dentro quel meccanismo lì. Dice: anch’io ho sofferto, sapete, anche se meno di voi, naturalmente. Non dice: ma privilegiata cosa, che sono portoricana. Non dice: se mi rimproverate perché il romanziere non è il romanzo siete scemi – che forse sarebbe l’unica cosa da dire. Tanto nessuna prevenzione basta, tanto tentare di comunicare con gli invasati della politica identitaria è come quelle scene di film in cui il negoziatore tenta di far ragionare il terrorista con gli ostaggi: finiscono sempre male, tanto vale fare Die Hard.

“All’inizio delle mie ricerche, prima di convincermi del tutto a imbarcarmi nell’impresa di narrare questa storia, ho intervistato una studiosa molto generosa, una donna straordinaria a capo del dipartimento di chicano studies della San Diego State University. Si chiama Norma Iglesias-Prieto. Le ho esposto i miei dubbi, dicendo che mi sentivo in dovere di scrivere questo libro ma non mi ritenevo abbastanza qualificata per farlo. Lei mi ha detto: «Jeanine, abbiamo bisogno di quante più voci possibili per raccontare questa storia»”.

Norma, sei in minoranza. Ieri, una settimana dopo l’uscita americana, l’editore statunitense del romanzo ha diramato un comunicato. Che, un po’ come questo articolo, tiene parecchio bassa la notizia. Al quinto paragrafo Bob Miller, presidente di Flatiron Books, ci dice che le presentazioni previste sono annullate “a causa delle concrete minacce di violenza nei confronti dell’autrice e dei librai”. Questo dopo aver trascorso decine di righe a scusarsi d’esistere: in casa editrice hanno sottovalutato il problema identitario, l’importanza del concetto di rappresentanza (una categoria è rappresentata solo se l’autrice di Madame Bovary è una massaia di provincia), hanno detto che il marito dell’autrice era un immigrato senza permesso di soggiorno ma non hanno specificato che era irlandese (privilegiato bianco, puntesclamativo); ci sono, lo giuro, persino delle scuse perché otto mesi fa, a una cena editoriale, la casa editrice ha usato come centrotavola una riproduzione del filo spinato che sta sulla copertina del libro su cui più puntava per la stagione a venire (Il sale della terra era stato lodato da chiunque conti qualcosa nella cultura popolare americana, da Oprah Winfrey a Stephen King a John Grisham). Vorrei ripeterlo per gli archeologi che indagheranno il secolo in cui eravamo diventati scemi: si sono scusati per l’indelicatezza d’un centrotavola, mentre l’autrice del libro che hanno pubblicato riceve minacce di morte perché è portoricana e ha scritto una storia di messicani.

“Ho svolto le ricerche con calma e attenzione. Ho viaggiato a lungo su entrambi i lati del confine e ho studiato in maniera approfondita il Messico e i migranti, le persone che vivono sulle terre di confine. Le statistiche riportate nel libro sono tutte vere e, nonostante abbia cambiato alcuni nomi, anche i luoghi sono quasi tutti reali. I personaggi, invece, pur essendo rappresentativi delle persone che ho incontrato durante i miei viaggi, sono inventati”.

Se avessi sfogliato Il sale della terra prima di ieri, arrivata alla Nota dell’autrice avrei sbuffato «Vabbè, Jeanine, abbiamo capito: hai scritto un romanzo, è una cosa che si fa da millenni». Da quando la vita era più facile, e si potevano inventare anche le favole. Ieri, sotto al tweet col comunicato dell’editore, c’era uno zoo di vetro di accuse: di mitomania (avete scritto che l’autrice ci ha lavorato cinque anni, ma prima dicevate quattro anni e sette mesi, puntesclamativo); di non aver tenuto conto della vita vissuta (cosa pensavate, di scrivere un romanzo?); di razzismo (se dite che avete ricevuto minacce, fate passare tutti i messicani per violenti). Il problema d’una cultura identitaria è che, se dici che un unicorno t’ha minacciata, diffami tutto il gruppo sociale degli unicorni facendoli passare per ontologicamente violenti.

“Mentre viaggiavo e mi documentavo, persino il concetto del sogno americano cominciava a sembrarmi un’appropriazione indebita”.

Quel che la Nota dell’autrice non aveva previsto era che il concetto di romanzo fosse un’appropriazione indebita. Quando Filippo Sensi, dimagrito decine di chili, arringa il parlamento sull’orrendità del linguaggio insultante, e nel farlo dice «Lo dico da persona obesa», cosa sta dicendo? Che esiste la permanenza nella rètina, per cui una volta che sei stato grasso ti vedi tale per sempre e continui a comprare giacche troppo grandi? Che il sovrappeso, come l’alcolismo curato secondo i metodi americani, si declina al presente anche quando non bevi alcol da decenni perché sarà per sempre la tua identità? Che sarai per sempre il peggio che tu sia mai stato – immigrato, ciccione, zitella, ateo, analfabeta, vegana – perché un’identità è per sempre? E, se anche abbiamo deciso che così funzioni la realtà (io preferirei di no, lo segnalo se qualcuno stesse contando i voti), non dovrebbe essere il preciso compito degli artisti – romanzieri, comici, attori, eccetera – deviare dallo schema prestabilito, dall’identità imposta? Travestirsi da magro a carnevale, scrivere un romanzo in cui l’io narrante è una veterinaria nicaraguense pur essendo un giovanotto mai uscito dal quarto arrondissement parigino, immaginare di vivere con un’austriaca in un tinello marròn pur conducendo una vita di gusti assai meno dozzinali? E anche, la domanda la tengo persino più bassa che nel comunicato dell’editore: ma ve lo ricordate quel tempo non così remoto in cui noi, occidente presunto e sedicente avanzato, le minacce di morte ai romanzieri che s’impicciavano di personaggi non di loro competenza le lasciavamo agli ayatollah?

Santiddio, che nostalgia della guerra fredda, quelli sì erano tempi civili.

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