In natura non esiste un maremmano meno maremmano di Lucio Corsi, cantautore ventiseienne di Vetulonia, Grosseto. Semmai Lucio Corsi sembra un prodotto inglese del post progressive degli anni Settanta, un personaggio di una canzone di David Bowie, un membro dei Roxy Music, un Jobriath italiano oppure un protagonista di Velvet Goldmine di Todd Haynes, il film del 1998 che ha celebrato l’epopea del glam rock britannico. Per restare all’oggi, Lucio Corsi è una campagna pubblicitaria di Gucci, tanto da avere anche sfilato per Alessandro Michele.
Lucio Corsi è tutto questo, un vero freak, ma ciò che conta è che Lucio Corsi è bravissimo. Nato nella scuderia Picicca di Brunori sas, l’avevamo notato quando si chiedeva, in una canzone, se la tuta si chiama «Errea o Erreà?», poi per un ambizioso concept album sugli animali, ma è con il nuovo disco, Cosa faremo da grandi?, che Lucio Corsi si candida a diventare il cantautore italiano dei prossimi anni.
Prodotto da Francesco Bianconi dei Baustelle, il nuovo album non è un capolavoro perché è cortissimo, nove canzoni per un totale di ventotto minuti. È un mezzo capolavoro, con alcune canzoni formidabili, dalla title track con lo slogan universale «nemmeno da vecchi si sa cosa faremo da grandi» ai riff di chitarra alla Bowie di Freccia bianca.
Nelle canzoni si sentono molto le influenze dei Baustelle e del cantautorato italiano, De Gregori e il primo Edoardo Bennato, ma anche il blues parlato di Bob Dylan. L’impronta è quella glam, con travestimenti progressive e testi allegorici, a cominciare dalle buche scavate sottoterra che arrivano fino in Cina e al grande problema di trovare il posto alle valigie sul Freccia Bianca, per non farle rimanere tutto il viaggio in piedi. C’è vento, tanto vento nelle canzoni di Corsi, da Trieste a Lugano, ma anche tanto tantissimo treno, pur confessando che «il vento è come il treno, poetico ma rompe il cazzo».