L’are di essere leaderDice Pierfrancesco Favino che in Craxi ha fatto rivivere suo padre (e l’anima della politica)

Intervista all’attore che ha interpretato il leader socialista nel film di Gianni Amelio, Hammamet: «Per comprendere un essere umano devi parlare come lui, muoverti come lui, mangiare quello che mangia lui. Craxi in un certo senso ha accettato la propria pena, in pochi hanno voglia di capire l’uomo»

Andreas SOLARO / AFP

In un’epoca di disumanizzazione dell’avversario ci scordiamo che, per quanto ci disprezziamo l’un l’altro, continuiamo ad appartenere alla stessa specie. Pierfrancesco Favino, nell’interpretare le luci e le ombre di criminali pentiti come Tommaso Buscetta e di politici polarizzanti come Bettino Craxi (in Hammamet di Gianni Amelio, nelle sale dal 9 gennaio, ndr.), trasforma il proprio lavoro da estetico in etico: e i simboli guadagnano la profondità di persone. Non mostri, non santi: persone. Perché anche il nostro peggior nemico è più simile a noi di una bandiera di stoffa. Abitare il corpo di un altro consente di toccare quel mistero dell’essere umano che il pregiudizio politico non sfiora neppure.

Entrerebbe anche nei corpi di Riina e di Hitler?
Figure del tutto negative come Riccardo III o Iago rappresentano tappe importanti nella carriera di molti attori. Ma ci sono abissi che mi spaventano. Bruno Ganz ha detto che durante le riprese de La caduta – Gli ultimi giorni di Hitler (di Oliver Hirschbiegel), quando si toglieva i baffetti tirava un sospiro di sollievo. Io per esempio ho rifiutato di interpretare un pedofilo. Non scordiamoci però che Buscetta era un ottimo strangolatore. Dentro di me non l’ho mai perdonato, eppure l’ho interpretato.

Com’è possibile diventare qualcuno che disprezziamo?
Capendolo. Per il servizio civile mi occupavo di ragazzi disagiati a Ostia. Per controllarli, i genitori li legavano ai termosifoni delle case occupate. Quando entrai in una di quelle case, la prima cosa che mi disse Simeone, di sette anni, fu: “Ma chi è ‘sto stronzo?”.

Faceva già il duro…
Ma era un bambino buono, in sé aveva la salvezza e l’abisso. Dopo qualche anno aprii per caso un giornale: era stato ucciso con un colpo di pala dal padre, che voleva abusare di lui mentre il fratello lo bloccava a terra. Mettiamo che fosse sopravvissuto e fosse diventato un criminale: conoscendo il contesto, oggi potrei permettermi di giudicarlo?

E i suoi personaggi, lei non li giudica?
Un attore, per capire l’altro da sé, usa il corpo. Per comprendere un essere umano devi parlare come lui, muoverti come lui, mangiare quello che mangia lui, usare gli oggetti che usa lui.

Un esempio?
Non ho mai amato le armi. Ma quando giravamo Romanzo criminale (di Michele Placido, ndr.), anche se la telecamera era diretta verso l’attore che interpretava il mio bersaglio, io non riuscivo a trattenermi dal puntargli la pistola contro. Era lei, e non la razionalità, che dettava la reazione del mio corpo.

Zoppicando come lui negli ultimi mesi di vita, cos’ha capito di Craxi?
Cosa abbia potuto significare perdere il corpo per un uomo abituato a svettare sugli altri. In una generazione di politici alti in media 1.65, lui era 1.92. Vedendolo enorme, tra i capi di stato stranieri, anche chi non lo ammetteva provava un sottile orgoglio.

Ora non le escono frasi di Craxi al supermercato, espressioni di Buscetta dal macellaio?
In teoria può capitare: è come la memoria muscolare di uno sport che hai praticato per tanto tempo. Quando Dustin Hoffman ritirò l’Oscar per Rain Man (di Benny Levison, ndr.) atteggiandosi da autistico, molti credettero che fosse una posa, io però non ne sono convinto.

Effetti collaterali dell’Actors Studio?
Può essere, ma in fatto di trasformazioni noi non abbiamo nulla da invidiare agli americani. Dai tempi di Plauto, passando per la commedia dell’arte, la storia attoriale italiana è una storia di travestimenti. Il tema del doppio tout court è molto più greco-latino che anglosassone.

La distanza storica è sufficiente per godere di un’opera d’arte su Craxi?
L’altra sera ero a Porta a porta con Piero Fassino, Fabrizio Cicchitto, Vincenzo Scotti, Claudio Martelli. Ancora non riuscivano a parlare del film in quanto film. La loro percezione estetica è condizionata dal ruolo che ha avuto Craxi per le rispettive vite politiche e private.

Non è così strano, per dei politici. Vale anche per il resto del pubblico?
Dipende dalla generazione. Chi è stato contemporaneo di quelle vicende sente il bisogno, ancora prima di vedere Hammamet, di schierarsi: con i giudici, per intenderci, o con Craxi. Coppi e Bartali, stessa cosa. La verginità dei giovani può aiutarli a vivere il film più laicamente. Non si può giudicare un’opera d’arte secondo categorie quali innocentismo e colpevolismo.

Quindi la mancanza di riferimenti espliciti, di nomi e cognomi, non ostacola la comprensione del film?
Al contrario. Schiacciare un’opera sulla storiografia trasformerebbe la narrazione in aneddotica. Hammamet è il racconto intimo della caduta di un potente. Chi fa film ha il diritto e il dovere della drammaturgia, e cioè di lavorare con gli archetipi e non con i ritagli di cronaca.

Buscetta, Craxi: non ha paura di venire confuso con un bravo imitatore?
No, perché ho ben presente la differenza tra i due mestieri.

E qual è?
L’anima. Io ho vissuto dentro il corpo di Craxi, così come prima dentro quello di Buscetta. Ho animato le loro figure tridimensionali con i miei sentimenti e i miei rapporti familiari. In Craxi ho fatto rivivere mio padre.

Non è facile dare carne a un archetipo…
Ma è la vocazione degli attori. In questo caso l’archetipo è quello del padre irraggiungibile. Per avvicinarlo ho interiorizzato anche il rapporto di mio suocero con mia moglie.

E lei si sente un padre irraggiungibile?
Naturalmente non avrò mai il peso che ha avuto Craxi nella storia italiana. Eppure le mie figlie sono cresciute vedendomi ricevere applausi sui palchi alla fine degli spettacoli. Quanto questo mi ha trasformato da loro eroe personale – ciò che è un padre per molti bambini – nell’eroe di un pubblico anonimo? Quanto questo può avermi distanziato da loro, reso più estraneo?

Crede che qualcosa di simile sia avvenuto per i figli di Craxi?
Verosimilmente all’ennesima potenza. Io devo pensare solo alla mia famiglia. Se avessi un ruolo istituzionale sarei responsabile per milioni di persone. Per proteggere le mie figlie cerco di nascondere problemi e debolezze. Quanto deve nascondere il padre di un’intera nazione?

Considera Craxi un padre della nazione?
Non sto dando un giudizio politico. Ma come attore ho il dovere di comprendere le complessità psicologiche.

E allora lo dia adesso, un giudizio politico…
Non lo do al singolo, lo do alla classe politica. In Tunisia, quando giravo travestito da Craxi, ero venerato, la gente mi inseguiva per regalarmi cose. Penso pure a Berlinguer, ad Andreotti: rappresentavano un modello di leadership di respiro internazionale che non esiste più. Perché non esiste più quel mondo, né quell’Italia.

In che senso?
Fino alla caduta del muro di Berlino avevamo un ruolo geopolitico incontestabile. E non era solo questione di circostanze, ce l’eravamo ritagliato, l’avevamo gestito con mestiere. Ma ciò caricava i politici di responsabilità enormi rispetto a quelle di oggi.

Nel film si dice che Craxi era arrogante, ma non cinico. È d’accordo?
Sì. Non ha mai fatto un nome. In un certo senso ha accettato la propria pena. La Storia fa delle vittime, ne era consapevole. Forse la condizione di esilio, che ai suoi occhi lo avvicinava a Mazzini e Garibaldi, lo lusingava perfino. Ma non sopportava la forma della sua caduta, il giustizialismo, il giacobinismo.

Che cos’è per lei la politica?
Intesa in senso alto è una lettura a tutto tondo della società, un’interpretazione dell’essere al mondo dell’uomo. E questa è una visione di politica che ha abitato Craxi.

Nonostante i suoi eventuali errori…
Puoi capire gli errori di un uomo solo se capisci l’uomo. In pochi hanno voglia di capire l’uomo Craxi. Tra i politici, solo il caso Moro spacca altrettanto l’opinione pubblica.

Ha paura di ricevere attacchi dagli anti-craxiani?
Posso dire che per ora sono stato preso di mira solo per un ruolo da poliziotto, in Acab (di Stefano Sollima, ndr.). Mentre per quello del Libanese in Romanzo criminale, un delinquente, ancora oggi la gente mi ferma: “Ahó, grande Libano!” È più impopolare un personaggio delle istituzioni che ha commesso un crimine piuttosto che un criminale fatto e finito. Il primo è odiato. Il secondo, a volte, idolatrato.

È una manifestazione del populismo?
Piuttosto dell’italianità. Forse, d’istinto, proviamo più simpatia per il ribelle che per il potente. A prescindere. Quando poi il potente è in difficoltà sentiamo odore di sangue. Del resto, Napoleone disse: gli italiani sono sempre pronti a correre in soccorso dei vincitori.

Ora lei, come attore, è un vincitore. Anche Craxi, come politico, lo è stato. Non ha paura di questa Italia, così lunatica, l’Italia dell’hotel Raphael?
C’è un modo di dire, tanto brutto quanto azzeccato: l’attore del momento. Adesso tutti ripetono che lavoro moltissimo, ma il mio ultimo film è uscito a maggio 2019. Bisogna essere abbastanza maturi da capire che il successo influenza ed è influenzato da quello che fai, non da quello che sei. Ecco, io so che il mio successo deriva solo da quello che ho fatto.

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