L’economia è in stagnazione da cinque anni, il tasso di povertà è al 15% e il prodotto interno lordo è minore di Italia e Brasile, al livello di Spagna e Corea del Sud, ma la Russia è ancora considerata una superpotenza mondiale. Il merito di questo bluff geopolitico è di Vladimir Putin che da vent’anni riesce a mantenere il potere del Cremlino quasi solo grazie alla sua politica estera spregiudicata, irrispettosa delle regole internazionali, ma efficiente per il suo scopo. Pochi mezzi, massimo risultato. Il disimpegno degli Stati Uniti di Trump nel Medio Oriente e la politica estera timida e scoordinata dell’Unione europea hanno fatto il resto.
L’ultimo esempio è il vertice di lunedì a Mosca in cui Putin ha convocato i due protagonisti della guerra civile libica: il leader del governo riconosciuto dalle Nazioni Unite, Fāyez al-Sarrāj, appoggiato da Italia e Turchia, e Il suo rivale, il generale Khalīfa Ḥaftar sostenuto da Francia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti. Cosa ha spinto i due leader delle fazioni che si fanno guerra dal 2014 a incontrarsi in una città a 3134 km da Tripoli per siglare una tregua definitiva? Due mosse. Primo, l’incontro dell’8 gennaio a Istanbul tra Putin e il premier turco Recep Tayyip Erdoğan, il principale sostenitore di al-Sarrāj in cui entrambi hanno chiesto il cessate il fuoco. Secondo, il ritiro dalla Libia degli oltre 500 mercenari della compagnia “Wagner” guidati dall’ex chef di Putin, Yevgeny Prigozhin, che finora avevano combattuto a fianco di Haftar. Al-Sarrāj ha già firmato, Haftar ha chiesto ancora un po ‘di tempo. In ogni caso finora il capo del Cremlino ha ottenuto con credibilità politica e un pugno di soldati ufficialmente non riconducibili a lui, ciò che il governo italiano non è riuscito a fare dopo mesi di annunci e vertici.
Dall’annessione illegale della Crimea alla guerra in Siria, fino alla crisi libica, Putin sembra aver ripristinato lo status internazionale della Russia nel mondo. Ma a ben guardare i dati economici, il gigante geopolitico ha i piedi d’argilla. E quando il presidente al suo quarto mandato non consecutivo lascerà il potere, che sia nel 2024 o tra dieci anni, senza il suo tatticismo la Russia dovrà reinventarsi. Non sarà facile. Il Paese non partirà dalle macerie del 1991, quando si dissolse l’Unione sovietica, ma non è così florido come il suo leader vuole far credere.
Sono passati vent’anni, ma la Russia è ancora dipendente dalle sue infinite materie prime. Secondo l’Ispi, che cita dati del governo russo, il 60% del prodotto interno lordo del Paese deriva dalle attività collegate a petrolio, gas e altre risorse naturali. Un problema, perché rende Mosca vulnerabile alle variazioni del prezzo globale. Se scende il prezzo al barile crolla l’economia. Se non sale in fretta, c’è la stagnazione. Così è difficile finanziare un impero.
Non a caso quando l’ex funzionario del Kgb è diventato per la prima volta primo ministro nell’agosto del 1999 l’economia russa stava uscendo a fatica dal default dell’anno precedente causato dal crollo del prezzo del petrolio nel mercato asiatico. Il governo non era riuscito a restituire 40 miliardi di debito pubblico ai creditori interni, l’inflazione era all’84%, il rublo valeva carta straccia e il baratto era l’unico modo per evitare la fame. Grazie all’aumento del prezzo del petrolio, alzatosi di quindici volte a cavallo degli anni Duemila, Putin è riuscito in parte a modernizzare la Russia e migliorare l’aspettativa di vita dei suoi cittadini.
Ma la grande ripresa economica che ha aumentato il Pil del 94%,è terminata con la crisi del 2008. Il crollo dei prezzi del petrolio nel 2014 e gli effetti economici delle sanzioni contro l’annessione illegale della Crimea hanno fatto il resto. Purtroppo per Mosca, Unione europea e Stati Uniti, hanno deciso di prorogarle ancora per un anno, fino al 23 giugno di quest’anno. Il 2015 è stato l’anno peggiore con la recessione e il crollo del Pil del 2,5%. Oggi la Russia vale il 2% dell’economia globale contro il 4% di dieci anni fa.
Nel 2018, durante la sua annuale conferenza stampa show, Putin aveva detto davanti a oltre duemila giornalisti provenienti da tutto il mondo che la Russia aveva bisogno di una svolta economica per ripartire. Due anni dopo i suoi connazionali la stanno ancora aspettando. Nel frattempo la crescita del Pil è sotto le aspettative del governo: +1,2% nel 2019 anche a causa dell’accordo Opec+ che ha ridotto la produzione di petrolio. Secondo la Banca mondiale sarà del +1,8% entro il 2021, molto meno del 2,5% che il ministero dell’Economia aveva previsto, forse in modo troppo ottimistico. Putin continua a inaugurare gasdotti in giro per il mondo, l’ultimo è il Turkstream a Instanbul, in occasione dell’incontro con Erdoğan per chiedere il cessate il fuoco in Libia. Dopo l’incontro della scorsa settimana con la cancelliera tedesca Angela Merkel anche il progetto del gasdotto NordStream2 che collegherà la Russia alla Germania dovrebbe terminare tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021. Una buona notizia, ma al Cremlino non basterà per far uscire il Paese dalla stagnazione.