MonologrammiI romanzi sono come la vita

La rubrica neopassatista e veterofuturista di Pasquale Panella

JOHN MACDOUGALL / AFP

«I romanzi sono come la vita per una sola ma fondamentale analogia: che hanno una fine ossia quel senso, quel senso della fine, che forse è il solo senso». Questo è l’incipit del romanzo, anzi è il romanzo, anzi è la teoria del romanzo, anzi è il romanzo come atto, anzi è l’autobiografia dell’autore, anzi è la biografia di tutte e tutti, di tutte le specie animali, anche delle verdure e delle verzure e dei verzieri, anche dei corpi inorganici e dei corpi celesti; è l’epopea degli oggetti, degli amori, degli eventi sportivi e degli eventi miracolosi e degli eventi atmosferici; è il trascorrere di ogni tempo e dei tempi supplementari, insomma di tutto; è anche la bibliografia con dentro tutti i libri. Fine.

La differenza con la vita delle persone è che i libri arrivano alla fine più volte, per questo esiste l’umanità, per riprendere in mano quei libri e ridar loro vita, e ridar loro la fine. Così i libri allevano umanità. Anche chi non legge è allevato dai libri perché con la parola libro si intende qualsiasi parola che definisca una materia che contiene uno scritto, anche il palmo della mano; con libro si intende una pelle, una pellicola, una scorza interna dell’albero, una pagina sfogliata dal tronco, una foglia, un vetro con sopra una condensa di vapore acqueo che spesso è respiro, un muro, una pietra, l’argilla cocciuta, la cera languida, anche la sabbia smemorata, tutta la pelle umana per carezze calligrafiche. Insomma non si scappa, anzi si è irretiti nelle fibre, nel fango indurente, nel fogliame rilegato e fitto, al di qua di finestre lacrimose, nella propria stessa pagina epidermica.

Che vuol dire tutto questo? Che l’umanità serve il libro e serve al libro e non il contrario, il libro si nutre di umanità. Il libro è il vero essere che è al mondo come il verbo essere che è nei libri, e il libro nutre chi legge con esche di personaggi e descrizioni; chi legge se ne pasce e, ben pasciuto, diventa pasto del libro che sotto gli occhi sta a pagine aperte come le fauci del capodoglio per il quale non siamo che calamari, infatti anche noi vorremmo scrivere su quella pagina bianca che è Moby Dick, ed ecco che schizziamo i nostri inchiostri atterriti dal foglio bianco che soffia, là soffia, sbuffa, perché noi siamo noia per la balenante pagina bianca. I libri stampati, è noto, si aprono come sbadigli, e con annoiata disinvoltura divorano chi dentro la lettura cade immerso, e anche le boe degli occhi vanno a fondo.

Calamaro o calamaio si chiama o si chiamava quella nostra quasi protesi che conteneva i nostri inchiostri di riserva per intingere la cannuccia, la penna, della quale, come si sa, ogni calamaro è dotato all’interno di sé, nell’intimo: quella penna trasparente come un’anima vanitosa, senza niente addosso, nemmeno sé stessa, e facilmente corruttibile dall’inchiostro. E anche totani siamo, dalla penna però più grossolana. Ecco fatto: dei libri siamo servi, siamo al loro servizio, siamo noi il loro nutrimento, senza di noi non esisterebbero, per questo ci allevano e ci fanno esistere. Ma tra noi, che siamo calamari, molti sono più servili e viscidi, venduti, insomma best seller, sono totani che figliano libri adescatori, accattivanti, scorrevoli come se le parole sguazzassero nel collirio, pagine che sono superfici sulle quali galleggiano stronzate letterarie, chiazze oleose di tristezze umoristiche, cadaverici vittimismi di adolescenze anziane e di infantilismi adulti, temini svolti come rotoli di igienica edificazione. Poi, narrativa e narrazione, è noto, sono termini ormai cannibalici: divorano l’umano in forma di racconto.

È romanzato tutto: la cronaca, il dibattito politico, il missile, l’elevazione sotto porta, la fisica quantistica, il gelo e il disgelo, il crudo e il cotto, il nudo e il morto, il sostenibile e l’insostenibile, lo strattone, tutto, eccetera (anche l’eccetera, il futuro nelle due versioni, anni bellissimi e scenari apocalittici). Escono nuove edizioni delle masse in piazza, che sia alla vista sia in forma di racconto tanto somigliano a un sunto facilitato di romanzo storico, forse di formazione o in forma di rito di passeggio, o forse epico epocale ma anche un po’ romantico e a uso un po’ scolastico, giovanil gioviale a ogni età (la giovinezza, forse questo è il punto: da perdere o, perduta, da ritrovare in piazza, là dove noi al nostro meglio ci demmo appuntamento o, al peggio, ancora aspettiamo i nostri tempi ritardari).

Il giornalismo tutto è un avvincente fogliettone che nello stesso giorno dell’uscita, nemmeno più il giorno dopo, anzi già in rotativa, spiaccica e incarta calamari e totani, e pure prezzemolini onnipresenti, e aglietti consolatori. È la mischia francesca romanzesca cucinata da giornalisti balzachiani, bravi più degli scrittori nel soffriggere l’aria: dorata, pastellata, croccante, ripassata, servita sulla carta che l’assorbe o su piatti di portata semistorica. È romanzo la vita collettiva, e la natura umana è editoriale. Del resto tutto il cosmo è un testo illustrato. Insomma, tutto è un grande romanzo che, alimentato dalle vite umane, ha fine più e più volte. Nessuno se ne accorge ma la parola fine è una parola che ride. Sa dal principio dove vuole arrivare, perché forse anche in principio era lei la parola, citata da Giovanni all’inizio del suo libro evangelico.

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