Il 29 marzo si terrà il referendum sul taglio dei parlamentari, una delle più demagogiche, immotivate, insensate riforme costituzionali mai tentate fino a oggi nel nostro paese – che pure ne ha viste parecchie – nonché l’unica, delle tante, che sarà quasi certamente approvata, essendo stata varata in Parlamento con il voto favorevole di poco meno del cento per cento delle forze politiche. Le uniche a votare contro sono state infatti Più Europa e Noi con l’Italia (che sarebbe il partito di Maurizio Lupi, per chi l’avesse dimenticato).
A pensarci, è piuttosto significativo che tutto questo accada oggi, dopo decenni di bicamerali, convegni e dibattiti altissimi; dopo che il fior fiore del mondo politico e accademico italiano si è cimentato senza successo sul tema della grande riforma istituzionale; dopo che nemmeno due dei leader più forti apparsi sulla scena – Silvio Berlusconi prima e Matteo Renzi poi – al massimo della loro popolarità, sono riusciti a superare lo scoglio del referendum. È veramente surreale, ma forse anche istruttivo, che a riuscirci sia ora lo sgangheratissimo taglio dei parlamentari elaborato dal Movimento Cinque stelle, partito ormai moribondo, che arriva sulla linea del traguardo praticamente decapitato.
Il moribondo ha però ancora la forza di afferrare i vivi, e trascinarli con sé. Cosa farà adesso, infatti, il Partito Democratico? Un conto è capovolgere la propria posizione in Parlamento, approvando una riforma della Costituzione definita sbagliata e pericolosa fino al giorno prima, e a cui si è votato contro in aula per ben tre volte, in cambio di contrappesi da inserire in una nuova legge elettorale che nessuno ha ancora visto. Un altro conto è utilizzare questo stesso argomento per convincere i propri elettori, trovandosi quindi nella posizione, francamente un po’ assurda, di dovere organizzare una campagna per promuovere una riforma che il Pd per primo aveva contestato. Ma è esattamente quello che farà. D’altra parte, non sarebbe meno assurdo il contrario: dopo averla votata in parlamento, fare di nuovo marcia indietro al referendum, o nascondersi dietro un’improponibile libertà di coscienza.
Del resto, non è meno sorprendente la posizione dei contrari alla nuova legge elettorale proporzionale, a cominciare da Carlo Calenda, il primo sostenitore del bipolarismo maggioritario ad annunciare la costruzione di un «terzo polo» (due posizioni difficilmente conciliabili anche per la geometria non euclidea). Un’assurdità del resto perfettamente simmetrica a quella di Nicola Zingaretti, che vuole costruire una grande coalizione di centrosinistra con il Movimento Cinque Stelle, e persino Giuseppe Conte candidato premier, ma al tempo stesso propone una legge elettorale che non prevede coalizioni, e di conseguenza nemmeno candidati premier. E se è vero che a non prevedere candidati premier (né premier, a voler essere pignoli) è anzitutto la Costituzione, è vero anche che facciamo finta del contrario da oltre un quarto di secolo. Per la precisione da quando, con il maggioritario, abbiamo consentito che si scrivessero i nomi degli pseudo-candidati premier persino sulla scheda elettorale.
Dunque, se si torna a una legge elettorale finalmente coerente con l’impianto parlamentare della nostra Costituzione, e si evita che la torsione maggioritaria data dal taglio si sommi a quella del sistema di voto, si fa una cosa sommamente buona e giusta. Anzitutto perché si eviterà così di consegnare a Matteo Salvini proprio quei pieni poteri che si è fatto tanto per negargli. E poi perché si restituirà al sistema politico, e dunque anche al dibattito pubblico, un minimo di pluralismo, uscendo dalle contrapposizioni manichee del bipolarismo di coalizione, per cui se la destra è garantista, allora la sinistra dev’essere per forza (tutta) giustizialista, e se la sinistra è libertaria, allora la destra dev’essere per forza (tutta) bacchettona, e così via. Togliendo al leader del principale partito della coalizione il potere di vita e di morte sui propri alleati, non è affatto da escludere che persino il dibattito pubblico faccia qualche passo avanti.
Non sarebbe affatto male, se alla fine di questa incredibile carambola populista si riuscisse a portare a casa l’unica vera riforma strutturale capace di mettere in sicurezza lo stato di diritto: cioè una legge proporzionale senza coalizioni, senza premi di maggioranza e senza trucchi, possibilmente con qualche vincolo costituzionale che impedisca di ricambiarla a maggioranza semplice dal giorno dopo il voto.
Intanto, la sola ombra di una legge proporzionale, senza coalizioni pre-elettorali, ha già cominciato a incrinare il Papeeteprinzip anche nel centrodestra, come dimostrano le prime critiche alla campagna estremista condotta da Salvini in Emilia-Romagna, arrivate – incredibile a dirsi – da Fratelli d’Italia e da Forza Italia, e persino dall’interno della Lega.
Vi pare poco, di questi tempi?