Donald Trump ha detto quattro cose apparentemente contraddittorie alla Casa Bianca, nel primo discorso alla nazione dopo gli attacchi iraniani: finché sarà presidente lui non consentirà agli Ayatollah di dotarsi dell’arma nucleare, cosa che ha tenuto a specificare prima ancora di dire buongiorno, ma ha anche detto che non userà la potenza di fuoco americana, però imporrà nuove sanzioni economiche e comunque adesso è favorevole a negoziare un nuovo patto sul nucleare. Il messaggio che il presidente ha voluto mandare agli iraniani è che adesso è pronto a trattare con il regime.
È stato questo il senso del suo discorso, non la guerra, non il regime change, semmai il cambiamento dei comportamenti iraniani. Asciugato dai toni da bullo di periferia, che da sempre fanno parte della sua tattica, il discorso di Trump è un distillato in purezza di Trump, del Trump delle ambigue battaglie immobiliari a Manhattan, del Trump dell’Art of the Deal, del Trump del reality show che forza la mano, che si mostra imprevedibile e che proietta potenza al fine di concludere un affare più vantaggioso per sé e per l’America.
Bisognerà vedere se gli iraniani, la cui tradizione commerciale formatasi nei bazaar è ben più solida di quella dei palazzinari newyorchesi, accetteranno i termini dell’accordo. Improbabile, ma se otterranno l’uscita degli Stati Uniti dal Medio Oriente, come promette Trump e come auspicano l’Ayatollah Khamenei e il presidente Hassan Rouhani, oltre che il defunto Soleimaiani, magari l’affare si potrà fare. Ammesso che sia un affare. Di certo questo atteggiamento negoziale da gradasso, più che da sistema America, finora non ha funzionato né con la Cina né con la Corea del Nord né con la Russia né con gli alleati ormai sempre più spiazzati dall’imprevedibilità del presidente.