La trappola cineseLa Cina ha vinto la guerra dei dazi, a Trump restano le briciole

Washington e Pechino hanno firmato mercoledì la “Fase Uno” dell’accordo commerciale che dovrebbe mettere fine alle tensioni. Il presidente degli Stati Uniti esulta ma ha ottenuto qualche esportazione in più, in cambio di promesse. E nessun accenno ai sussidi scorretti del governo comunista

Donald Trump ha scatenato una guerra dei dazi con la Cina che ha causato il rallentamento dell’economia mondiale per ottenere solo 200 miliardi di esportazioni in più verso Pechino, e un paio di promesse. Martedì a Washington il presidente degli Stati Uniti e il vice premier della Repubblica popolare cinese, Liu He hanno firmato la “Fase Uno” dell’accordo commerciale che dovrebbe mettere fine alle tensioni commerciali lunga 18 mesi. La Cina si impegna ad acquistare altri beni statunitensi per almeno 200 miliardi di dollari. In cambio gli Usa si sono impegnati a non aggiungere nuovi dazi, anche se rimarranno quelli esistenti fino alla firma di un’eventuale fase due. La cifra promessa dal governo cinese è imponente, ma sarà spezzata in due tranche: 76,7 miliardi di dollari nel 2020 e 123,3 miliardi nel 2021. Però, a ben guardare, solo nel 2018 gli Stati Uniti hanno importato dalla Cina 557,9 miliardi di dollari e il disavanzo commerciale di beni e servizi con Pechino è stato negativo di 378,6 miliardi di dollari. Messo così, l’accordo non sembra straordinario.

Nell’accordo di 94 pagine ci sono anche alcune dichiarazioni blande in cui Pechino si impegna regolare la svalutazione monetaria e a non incentivare la copia dei brevetti delle compagnie Usa. «La Cina riconosce l’importanza d’istituire e attuare un sistema giuridico globale di protezione e applicazione della proprietà intellettuale mentre si trasforma da un grande consumatore di proprietà intellettuale a un grande produttore di proprietà intellettuale». Belle parole, ma l’accordo non impone alcun tipo di sanzione in caso Pechino non cambi comportamento. Un po’ deludente per un accordo che Trump ha definito «storico».

Il problema è che a un anno dalle elezioni presidenziali manca la parte più importante: l’impegno a cessare la pratica scorretta delle sovvenzioni statali del governo cinese verso le sue aziende. Un aiuto smisurato che distorce il libero mercato visto che altre imprese nel mondo, e in particolare in Europa non possono godere dello stesso trattamento. Dal 2001 la Cina ha ottenuto lo status di “economia di mercato”, ma non gioca con le stesse regole degli altri. Questo è il vero motivo per cui Trump aveva iniziato la guerra commerciale. Diciotto mesi di tensioni non hanno ancora risolto niente.

Trump ha gongolato durante tutta la conferenza stampa celebrativa con toni da convention aziendale. Ha promesso che la Fase Due risolverà tutti i problemi ma sembra difficile che The Donald possa chiudere un accordo così difficile in soli dodici mesi. E le elezioni presidenziali potrebbero portare un nuovo inquilino alla Casa Bianca. La sensazione è che dopo tutto questo bailamme il presidente Usa abbia infilato gli indici nella classica trappola cinese: un accordo vago con poche promesse da mantenere più in là. In Italia hanno fatto politica piazzisti più talentuosi. Il capogruppo dell’opposizione al Senato, il democratico Chuck Schumer, ha attaccato l’accordo: «La fase uno è una delusione per me e per milioni di americani che vogliono vedere la Cina giocare pulito. Ha concesso il nostro potere per ottenere “promesse” vaghe e inapplicabili che la Cina non intenderà mantenere».

Trump ha risposto stizzito: «Schumer non ha letto neanche il testo che è incredibile». Sarà, ma allora perché un giorno prima dell’accordo il responsabile del commercio statunitense Robert Lighthizer ha fatto una dichiarazione congiunta assieme al ministro dell’economia giapponese Hiroshi Kajiyama e il commissario Ue al commercio, Phil Hogan, e per chiedere alla World Trade Organization nuove regole per frenare i sussidi cinesi? Sarebbe stato inutile chiederlo un giorno prima di un accordo che in teoria avrebbe dovuto risolvere la questione. E invece Giappone, Stati Uniti e Unione europea chiederanno all’Organizzazione mondiale del commercio di proibire altri quattro tipi di sussidi che il governo cinese continua a concedere alle sue aziende: garanzie illimitate, sussidi alle imprese in difficoltà senza un piano di ristrutturazione, sussidi alle imprese incapaci di ottenere finanziamenti a lungo termine e il “perdono del debito”.

«È più difficile del mercato immobiliare di New York, eh?» ha detto Trump davanti alle telecamere rivolgendosi a suo genero Jared Kushner, ex immobiliarista e ora senior advisor del presidente alla Casa Bianca. Eh sì, vendere un palazzo a New York non è come trattare con la seconda economia del mondo. Per passare dalla Grande Mela al Dragone rosso non basta seguire alla lettera The Art of the deal, l’autobiografia in cui Trump spiega la sua tecnica da venditore. Nel libro la regola d’oro è: «La cosa migliore che puoi fare è trattare con la forza e la posizione dominante è la più grande forza che puoi avere. La posizione dominante vuol dire avere quello che la controparte vuole. O meglio, ciò di cui ha bisogno. Oppure, la cosa migliore di tutte: ciò di cui non può fare a meno». Trump pensava che la Cina non potesse sopravvivere senza le esportazioni verso gli Stati Uniti. Quindi per un anno ha imposto dazi verso Pechino che hanno rallentato l’economia mondiale. Pensava di aver preso Xi Jinping con l’acqua alla gola e invece ha ottenuto l’effetto opposto.

Martedì il governo cinese ha pubblicato un report in cui segnala che le esportazioni sono aumentate addirittura dello 0,5% nel 2019, nonostante la guerra tariffaria con Washington. I dazi di Trump hanno fatto diminuire del 12,5% l’export cinese verso gli Usa (418,5 miliardi di dollari), ma gli imprenditori cinesi hanno attaccato altri mercati con guadagni a due cifre in Francia, Canada, Australia, Brasile e nel Sud-Est asiatico. Non un trionfo, ma Pechino ha dimostrato a Trump di aver retto il colpo.

Non solo. La guerra del presidente Usa contro Huawei ha spinto il governo cinese a programmare una strategia per diventare tecnologicamente autosufficiente nel giro di pochi anni. Secondo una indiscrezione di dicembre del Financial Times, il partito comunista cinese avrebbe ordinato di rimuovere entro tre anni tutti i Pc e i software stranieri dagli uffici dei dipendenti pubblici. Parliamo di una cifra imponente tra i 20 e i 30 milioni di componenti hardware che saranno sostituiti nel 2020 (la metà del totale), 2021 (il 30%) e 2022 (20%). Un colpo micidiale da 150 miliardi di dollari per i fatturati delle statunitensi Microsoft, Dell e Hp. E a guardar bene, anche le esportazioni agricole non avvantaggeranno così tanto gli agricoltori statunitensi. Come ha fatto notare Robert Reich, ex segretario del Lavoro sotto Bill Clinton: «La Cina acquisterà 50 miliardi di dollari di prodotti agricoli quest’anno. Un guadagno di 29 miliardi da prima delle tariffe Trump. I dazi di Trump sono costati agli agricoltori Usa 11 miliardi. I contribuenti statunitensi hanno speso 28 miliardi in pagamenti di emergenza agli agricoltori. Quindi la perdita negli Stati Uniti è di 39 miliardi di dollari». Fate voi i conti.