La piazza iraniana e i tweet di Donald Trump hanno dominato un’altra surreale e spaventosa giornata tra il Medio Oriente e gli Stati Uniti. Gli iraniani sono scesi in strada, uniti dall’odio per l’America che li ha umiliati ancora una volta, in modalità oceanica sia per la questura sia per gli organizzatori che da quelle parti sono la stessa cosa. Gli americani hanno assistito inermi allo shitstorm presidenziale via social network con cui Trump ha minacciato di bombardare cinquantadue obiettivi politici e culturali iraniani a caso, mentre altrettanto trumpianamente il regista Michael Moore ha scritto a nome dei suoi connazionali un DM (direct message) al Grande Ayatollah Ali Khamenei, senza però aver ricevuto alcuna risposta (almeno uno serio, in tutto questo, sembra esserci). Il fronte anti Trump si è appassionato anche a un’altra battaglia grottesca, quella di chiedere a Twitter di togliere al presidente l’account con cui ha notificato al Congresso che farà la guerra a Teheran, scendendo ancora una volta sul campo in cui Trump è imbattibile, quello della farsa.
Sono arrivate intanto le prime indiscrezioni sulle motivazioni che hanno portato alla decisione di Trump: il presidente ha deciso di eliminare il generale iraniano Qassem Soleimani dopo che quei furbastri del Pentagono – i membri della «resistenza repubblicana» che secondo Anonymous restano accanto al presidente, pur disprezzandolo, solo per evitare che possa compiere azioni assurde, sbagliate e illegali (ottimo lavoro!) – gli hanno sottoposto una serie di ipotesi per punire l’assalto iraniano all’ambasciata americana di Baghdad, inserendo l’assassinio mirato di Soleimani solo per far apparire più ragionevoli le altre opzioni. Gli strateghi del Pentagono non pensavano che Trump potesse scegliere l’ipotesi più estrema (ottimo lavoro!) che prima di lui sia George W. Bush sia Barack Obama, pur avendone avuto la possibilità, non avevano mai perseguito proprio per averne soppesato a dovere le conseguenze e i rischi.
Non c’è nessuna idea dietro la decisione di Trump, non è stato preparato niente, non esistono piani o strategie per il dopo, cioè per oggi, domani e dopodomani. Non lo sostengono soltanto le ricostruzioni degli odiati media liberal, sono gli stessi uomini del team Trump a non avere niente da dire se non farsi dettare la linea dall’ultimo tweet del presidente. Il problema è Trump medesimo, il quale ora è costretto ad alzare la posta, nella speranza che gli iraniani si spaventino. Ma fino a quando e fino a dove si spingerà?
A metà tra il giocatore di poker e il guappo di strada, per due sere di fila Trump ha minacciato di colpire obiettivi iraniani nella più plateale e palese violazione preventiva dei principi americani e in flagranza di impeachment, altro che Ucrainagate. Trump promette fuoco e fiamme, fire and fury, da presidente che nel 2016 come nel 2020 chiede i voti degli americani sia dicendo che si ritirerà dal Medio Oriente sia che lo colpirà, peraltro mantenendo entrambe le promesse. Con un altro colpo di scena, ieri Trump è riuscito nell’impresa di intimidire gli alleati iracheni con sanzioni economiche più pesanti di quelle imposte al nemico Iran. Ecco, dunque, la prima conseguenza dell’uccisione di Soleimani: il Parlamento di Baghdad ora pretende l’uscita americana dall’Iraq, realizzando il sogno proibito sia dell’Isis sia di Soleimani.