Vi avverto, la prendo alla lontana, perciò in premessa lo anticipo: si tratta del coronavirus, e dell’idea che nulla di ciò che sta accadendo è casuale, ma tutto rientra in una logica. Questa logica è quella che sempre di più spinge a «usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo». A sostenerlo è Giorgio Agamben, il filosofo italiano contemporaneo più letto e studiato nel mondo, autore di un’opera fondamentale, “Homo sacer”, articolata in più volumi e di recente ripubblicata in un unico, pregevolissimo tomo. Bene, cosa dice Agamben? Che questa epidemia è una bazzecola, se guardiamo al fenomeno nelle sue dimensioni reali: al numero dei contagiati, dei malati, dei deceduti. Ma i provvedimenti presi dal governo non tengono minimamente conto della realtà del fenomeno, la prendono invece a pretesto per una «vera e propria militarizzazione» delle aree a rischio, con l’estensione – che Agamben dà per certa e imminente – di quegli stessi provvedimenti – e delle conseguenti, «gravi limitazioni della libertà» – in tutte le regioni italiane, «poiché è quasi impossibile che degli altri casi non si si verifichino altrove». Cosa se ne faccia il governo in carica di tutti questi enormi poteri e queste pesanti limitazioni a me non è chiaro, però Agamben dice così: proclamano lo stato d’eccezione, sospendono il diritto, privano della libertà.
La prendo alla lontana, dicevo. E infatti: seminario di Jacques Derrida presso l’École des hautes études, a Parigi, 6 dicembre 2000, mercoledì, ore 17. Il filosofo comincia la sua lezione da una ben stramba questione: «che cos’è un presidente?», domanda che gli sarebbe venuto persino più naturale di porre se avesse potuto gettare uno sguardo approfondito sull’attuale scena politica italiana, ma questa è un’osservazione che debbo tenere per me. Gli ascoltatori giunti in rue d’Ulm dovettero comunque trovarla curiosa. Il seminario era dedicato infatti alla pena di morte, e Derrida lo teneva dopo essersi lungamente occupato, l’anno prima, di Kant e Beccaria, dei discorsi abolizionisti di Hugo e Camus, di colpa e punizione, legge del taglione e crudeltà.
Ma quel mercoledì sera Derrida si chiede che cos’è un presidente: dopo tutto, osserva, nei paesi in cui vige la pena di morte, non è a lui che spetta l’ultima parola, non è lui che può concedere o rifiutare la grazia? E da dove gli viene questa facoltà di ultima istanza, se non dall’antica eredità di un potere sovrano, che è ora nelle sue mani? Non è difficile seguire il filo che Derrida tesse: dalla pena capitale alla sovranità, che si manifesta massimamente nelle decisioni sulla vita e sulla morte. Decisioni eccezionali, certo, ma proprio questo è il punto che Derrida sta commentando: sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione, secondo la celebre definizione di Carl Schmitt.
Dunque ci siamo: stato d’eccezione – lo stato d’eccezione che secondo Agamben il nostro Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte da Volturara Appula, si appresta a estendere indiscriminatamente a tutto il territorio nazionale – vuol dire sovranità. Cioè potere di vita o di morte: ius vitae ac necis, come dicevano i romani, e quando si nominano i Romani si deve sempre sospettare che dietro il diritto si acquatti la forza più brutale.
Ora però Derrida aggiunge, con un certo senso della misura: ma voi ce lo vedete, un Presidente, vestire simili panni? Dite quel che volete sul sovrano, ma un Presidente, in una democrazia costituzionale, ne ha fin troppi, di limiti e condizionamenti di legge. A questi aggiungi quelli dell’opinione pubblica e del mandato elettorale, e vedrai «in che modo l’esercizio della sovranità, nel caso della presidenza, sia limitato». Poi, certo, vi sono ancora Paesi che mantengono nei loro ordinamenti la pena capitale, ma facci caso: quei Paesi sono oggi chiamati a giustificarsi, non gli Stati che invece l’hanno abolita.
Ebbene, perché l’ho presa così alla lontana, tirando in ballo la differenza fra la figura del sovrano e quella del Presidente? Perché Agamben non è minimamente sensibile a questa differenza: il suo paradigma biopolitico non la prevede, non la considera rilevante. E così non considera rilevanti molte altre differenze, tutte più o meno riconducibili allo Stato di diritto e a ciò che caratterizza una democrazia come liberale, per cui la chiusura delle scuole fino a sabato o Juventus-Inter a porte chiuse non sono ancora, per fortuna, l’anticamera della dittatura. Derrida ragionava, nel suo seminario, sul comportamento dei candidati alle elezioni presidenziali, in Francia o negli Stati Uniti, e al modo in cui dovevano, nel manifestare la propria opinione sullo stato d’eccezione (voglio dire: sulla pena di morte), tener conto dei sentimenti dell’opinione pubblica.
Allo stesso modo il nostro povero Giuseppi, partito lancia in resta con i provvedimenti d’urgenza, si è presto reso conto che le misure impositive prese ai fini del contenimento dell’epidemia devono pur tener conto della realtà di un Paese, di un’economia e di una società che deve poter operare al netto di ogni sfoggio di potere sovrano. Agamben non se ne è accorto, ma un minuto dopo il decreto legge che lo ha tanto preoccupato, il presidente del Consiglio si è visto tirato dall’altra parte: riapriamo le scuole, riapriamo gli stadi, riapriamo pure i bar a tarda sera. Lo stato d’eccezione piace poco, evidentemente, e il premier tutta questa forza sovrana per proseguire con le gravi limitazioni della libertà non ce l’ha.
Ora, non sta a me mettere ordine nelle decisioni assunte in queste settimane: non è facile. Ma se uno si prendesse la briga di farne la cronologia, di seguirle passo passo, si renderebbe facilmente conto che di tutto s’è trattato meno che dell’esercizio di un potere sovrano incondizionato. Se non altro perché di presidenti se ne sono visti all’opera parecchi, e per un premier che decideva in un modo, c’è sempre stato un governatore che decideva in un altro. Stiamo attenti, anzi: che non sia proprio la scarsa dimestichezza con la decisione politica del presidente Conte (mi sia consentito l’eufemismo) a non far venire la voglia di ben altri polsi assai più fermi, o almeno più coerenti.
Perché diciamo la verità: non è che la gente si sia fatta prendere dal panico, come dice Alessandro Dal Lago sul Foglio. È peggio: è il decisore politico che non si è raccapezzato (altro eufemismo). E, certo, è difficile pretendere dai cittadini un maggior self control di quello che han dimostrato in questi giorni certi politici. Penso a Fontana: ma è mai possibile che in Lombardia chiuda tutto quello che si può chiudere, avendo dichiarato però che si tratta di «poco più di una normale influenza»? E che dire della sceneggiata della mascherina, che prima ce l’ha, poi se la mette ma se la mette male, poi se la toglie, poi chissà?
Sappiamo molte cose, oggi, sui bias di conferma, su come circola l’opinione in Rete e come si rafforza a prescindere dalla realtà, grazie alla circolazione delle fake news. Eccetera eccetera. Dopodiché prima di dire “la gente”, diciamo pure “i politici” che han giocato irresponsabilmente a fare i primi della classe, “gli scienziati” che si son dati sulla voce, rimbeccandosi l’un l’altro, e “i media” che bombardano ventiquattrore su ventiquattro, infine “la gente”. Ma appunto: solo alla fine, e a parecchie lunghezze di distanza.