La salute prima di tutto. A costo di qualsiasi shock, ora economico ora sociale. Una motivazione unanime, scelta come guida per combattere l’ondata di coronavirus che ha travolto il Nord Italia in questi giorni. Difficile da contestare. Come difficile da contestare sono quei dati che, di riflesso, interagiscono con l’avvento del virus cinese. A partire proprio da quelli economici.
Per intenderci: il bollettino sanitario in continua evoluzione, interessa principalmente il Veneto e la Lombardia, regioni che da sole valgono il 31% del Pil, ovvero 550 miliardi di euro, e dalle quali parte il 40% delle esportazioni del Paese. Le ordinanze di chiusura che hanno coinvolto scuole, musei, uffici pubblici, piccole e medie imprese (per quanto riguarda i comuni coinvolti nel lodigiano), portano invece a galla i seguenti numeri: le aziende di Codogno e Casalpusterlengo fatturano da sole 1,5 miliardi l’anno e ogni giorno di stop può mandare in fumo 4 milioni di entrate, ritoccato a 18 milioni nel caso la quarantena venisse estesa a tutta la provincia di Lodi. Un giovedì nero esteso per l’economia italiana, che per molti economisti ha già innescato danni permanenti nel fragile mercato nostrano.
L’espressione più utilizzata è quella di “cigno nero”, cioè un evento raro e imprevedibile in grado di ribaltare l’economia mondiale e nazionale. Iniziando dalla microeconomia fino ad arrivare alle Borsa mondiale: i listini europei, nella giornata di ieri, hanno vissuto momenti negativi proprio a causa dei timori legati al virus cinese. Piazza Affari, dopo un’apertura in ribasso del 3,5%, nel pomeriggio ha ceduto ancora a -6%, Francoforte in flessione del 3,5%, Parigi del 3,4% e Londra del 3%. Il mercato, secondo Lorenzo Codogno, visiting professor in practice alla London School of Economics, è alle prese con «un riposizionamento» contro corrente a quello che era il trend positivo di questo inizio 2020. In altre parole, il terremoto è solo all’inizio, le borse provano a ovattare le scosse più forti, mentre in molti corrono ai ripari rifugiandosi nell’oro (bene, per l’appunto, rifugio) e fuggendo da un petrolio contagiato dall’effetto coronavirus.
Come può toccarci tutto ciò? È ancora presto per dare una risposta definita, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, parla di «un’impatto del coronavirus che potrebbe pesare sul Pil dell’Italia di oltre lo 0,2%», mentre Confimprese, registra già una perdita del 30% nel retail in questo primo week end. Tradotto: il calo di traffico nei negozi è già registrabile, i primi sintomi di una crisi che si inserisce nel sistema economico di un Paese già in recessione, e che molto prima di quanto si possa immaginare dovrà fare i conti anche con una contrazione del flusso turistico.
Milano ne ha già misurato lo scotto da pagare: alla settimana della moda milanese, infatti, si sono registrati mille compratori cinesi in meno rispetto all’anno scorso, un calo dell’80%. Il mancato arrivo dei turisti da Pechino a Venezia, Verona e Milano ha assestato un duro colpo ad albergatori e commercianti. Gli acquisti di lusso esentasse nel 2019 hanno come primi attori proprio i cinesi (28 per cento del totale), per un totale di spesa di 462 milioni di euro, oltre 300 euro al giorno, circa 1.500 euro a viaggio. Il piatto piange e l’Italia, Lombardia e Veneto in testa, non può fare a meno dei turisti e del suo cuore finanziario. Come ricorda La Repubblica, poco a nord di Codogno ci sono i quartieri generali di Eni, Saipem e Snam, la logistica Amazon in Italia in direzione opposta, la meccanica piacentina e i gioielli dell’industria alimentare emiliana. Mentre in zona Vo’ Euganeo è a rischio l’enorme galassia delle 107 mila pmi della provincia di Padova che da sole valgono 29 miliardi di fatturato. A questo si aggiunge il blocco di ogni tipo di manifestazione nelle regioni suddette: come avvenuto per il Carnevale di Venezia che, secondo le stime di Confturismo, ha perso 22 milioni per l’effetto coronavirus.
Al netto di questo e utilizzando i criteri di previsione sul contagio del Johns Hopkins Center for Health Security e quelli sull’impatto economico di Lee e McKibbins (gli stessi utilizzati durante la crisi della Sars), PriceWaterhouseCoopers ritiene che già oggi il conto che il mondo deve pagare in termini di rallentamento delle catene di commercio sia pari a 570 miliardi di dollari. Questa somma, prima di fare del caso italiano il più grave, si deve anche a quello che sta accadendo in Cina, dove nelle prime settimane di febbraio le vendite di auto sono calate del 92%, le transazioni immobiliari -90% e le importazioni hanno già fatto schizzare al rialzo del 20% i prezzi del cibo.
In questo marasma globale, la strategia del governo italiano sul fronte economico ricalca da vicino le procedure adottate in caso di terremoti e altre calamità naturali. Mettere in quarantene le zone rosse ferma e aggrava la situazione, in termini economici: nel giro di pochi giorni sarà infatti chiaro che le ricadute non sono più solo quelle indirette.
In un quadro dove il 2019 si è chiuso con un segno meno nell’ultimo trimestre e il rallentamento dell’economia tedesca a noi interdipendente, si aggiunge pertanto la preoccupazione del coronavirus. Gli economisti, di fatto, incrociano le dita nella speranza che il modello con il quale l’economia italiana deciderà di cavalcare questa crisi sarà quello a V, che sì scende in picchiata ma è anche pronto a risalire in breve termine, al contrario di quello a U, che prevede una stagnazione molto più lunga e dispendiosa.
La verità, molto probabilmente, sta nel mezzo e per il momento, come detto, la salute viene prima di tutto, anche dell’economia del nostro Paese.