Il 2010 non fu anno bisesto come il virulento 2020, ma funesto per gli abitanti di Haiti lo fu eccome. Per non dire il più funesto della storia recente. Dieci anni fa, più o meno in questi giorni: sono le 16,53 di martedì 12 gennaio quando un terremoto di magnitudo 7.0 scuote l’isola dei Caraibi. Il distretto di Léogâne, che si trova proprio nell’epicentro, viene raso al suolo in pochi secondi, con l’80% delle costruzioni distrutte o seriamente danneggiate, e intere scuole sepolte insieme a bambini e insegnanti. Nella capitale Port-au-Prince, a trenta chilometri di distanza, crollano migliaia di edifici, soprattutto i più sgangherati, tuguri fatiscenti occupati da gente che non ha altra scelta che vivere lì, senza acqua corrente, né fogne, né luce elettrica. E senza strade di accesso per ambulanze e mezzi di soccorso. Molte case collassano su se stesse, altre scivolano dalle colline dentro i dirupi sottostanti. La catastrofe falcia almeno 150 mila vite umane, o forse il doppio, in grande maggioranza poveri o poverissimi. È una contabilità quasi impossibile in luoghi come la zona meridionale di Haiti, dove nessuno ha fatto un censimento preciso dei residenti.
Ma le disgrazie, come si dice, non vengono mai sole. Il 21 ottobre dello stesso anno, mentre è in corso la cosiddetta “ricostruzione” con l’aiuto delle organizzazioni internazionali, e gran parte degli sfollati è accampata in precarie tendopoli che vengono giù al primo alito di vento, il governo haitiano annuncia una nuova emergenza: un’epidemia di colera, che nel giro di qualche mese farà altri diecimila morti. Non succedeva da un secolo: in realtà, a diffondere il vibrione sono stati proprio i Caschi Blu dell’Onu inviati nell’isola dopo il sisma, che non hanno usato cautele sufficienti nello smaltire i propri rifiuti, in un contesto già gravemente inquinato.
Ci vorranno sei anni prima che le Nazioni Unite, per bocca del segretario Ban Ki-moon, ammettano le loro responsabilità e varino un piano di interventi da 400 milioni di dollari per risarcire la popolazione e migliorare acquedotti e fognature dell’isola. Piano che peraltro non pare abbia dato finora grandi risultati, visto che il colera, ad Haiti, resta una minaccia strisciante. Inutile prendersela con l’anno bisesto, o il destino cinico e baro, o la natura matrigna: all’origine dell’epidemia c’è stato un errore umano.
Nemmeno la strage sismica, a ben vedere, è senza colpevoli. Altri terremoti devastanti erano avvenuti nel corso dei secoli precedenti, i più gravi nel 1751, nel 1770 e nel 1842. Eppure nessuno aveva mai sentito il bisogno di fare qualcosa per evitare l’ennesima ecatombe. Nessun signore di Haiti, nessun investitore straniero si era preoccupato di adottare norme antisismiche per mettere in sicurezza i cittadini. E per forse duecento anni si era andati avanti a tirare su le sterminate baraccopoli che il terremoto avrebbe spazzato via in meno di un minuto. Il colmo è che proprio di queste cose si discutesse, in quel fatale 12 gennaio del 2010, in un convegno di esperti a Port-au-Prince.
È quanto ci racconta Ilan Kelman nel libro “Disaster by Choice: How our actions turn natural hazards into catastrophes”, appena uscito, con agghiacciante tempismo, da Oxford University Press. «I disastri non sono naturali», sostiene Kelman. «Siamo noi a crearli e possiamo scegliere di prevenirli…Abbiamo davanti a noi delle opzioni riguardo a dove vivere, come costruire, e come prepararci a convivere con la natura. Molte delle scelte che facciamo attualmente aprono la strada a morte e devastazione».
Tornadi, terremoti e tsunami esistono da milioni di anni, spiega lo studioso inglese. La natura non sceglie, non è né buona né cattiva. La libertà di scelta è una prerogativa nostra, di noi esseri pensanti e razionali. E spesso, più che di evitare i rischi naturali, dovremmo preoccupaci di ridurre la nostra vulnerabilità. Nel suo libro Kelman, che tiene l’inquietante corso “Disastri e salute” presso la facoltà di Matematica e Scienze fisiche dell’University College di Londra, mette in fila le peggiori catastrofi che hanno funestato il cammino dell’umanità, dagli anni Cinquanta del 900 a oggi, e ne analizza con spietata lucidità le cause, i costi e le strategie messe in campo dai governi per contrastarle o prevenirle. Ce n’è per tutti i gusti, come in una rassegna di disaster movie: uragani, terremoti, epidemie, incendi, siccità, alluvioni e altri eventi climatici estremi. Da Katrina a Ebola, dal Giappone alla California, dal Canada al Bangladesh. Manca solo il coronavirus, perché l’autore non ha fatto in tempo a inserirlo. Ma per i nostri politici è comunque una lettura istruttiva: forse varrebbe la pena di pagargli un corso di risk management all’University College, Brexit permettendo.
Kelman ci ricorda che le armi decisive contro i disastri sono la conoscenza e le tecnologie. Durante l’epidemia di Ebola in Africa occidentale, tra il 2014 e il 2016, la più estesa finora nella storia dell’umanità”, alcuni individui infetti hanno viaggiato fino agli Stati Uniti e all’Inghilterra, eppure in questi due paesi non si è registrato neppure un focolaio. Sapete perché? Quelle persone «avevano le conoscenze, le risorse e l’interesse per scongiurare la diffusione del virus, e agirono di conseguenza, mentre a nazioni come la Sierra Leone, la Liberia e la Guinea serviva l’aiuto del mondo sviluppato per fermare il contagio, perché non disponevano delle risorse necessarie».
Ma c’è di più, continua Kelman. L’espansione del virus Ebola in Africa occidentale poteva essere contenuta, se non del tutto arrestata, molto prima di quanto si è fatto. E non solo per la corruzione e l’incompetenza dei governanti locali, ma anche perché l’Organizzazione mondiale della sanità fu troppo lenta a fronteggiare l’emergenza. Non tutti sanno che negli anni precedenti, il budget dell’Oms aveva subito tagli drammatici, e una delle voci più penalizzate era stata per l’appunto la prevenzione e la lotta alle epidemie. “Dobbiamo biasimare l’Onu per la tardiva e inadeguata risposta a Ebola? – si chiede Kelman. – O la responsabilità non ricade piuttosto sui paesi donatori che non hanno avuto la lungimiranza di prevenire i disastri epidemici?”.
Purtroppo non sempre si è liberi di scegliere. Nessuno ti obbliga a comprarti un cottage ai bordi della foresta a Canberra, anche se te lo puoi permettere e lì la qualità della vita è migliore, l’aria meno inquinata, e puoi fare jogging tutte le mattine. Basta che poi non ti lamenti quando la casa va in fiamme. A meno di seguire l’esempio di certi cittadini di Boulder, Colorado, che proteggono efficacemente le loro ville con materiali costruttivi non combustibili e altre misure antincendio. Non è obbligatorio neppure prendersi una mansion sulla costa del South Carolina, dove poi arriva l’uragano Matthew, o Irma, che ti inonda il giardino e ti scoperchia il tetto. Tanto, se sei milionario, paga l’assicurazione.
Chi non è nella condizione di scegliere sono i disperati degli slum di Haiti, o quelli che si accalcano sulle pendici del vulcano messicano Popocatepetl. Per loro il rischio eruzione, o terremoto, o tornado, è una trappola senza vie di fuga. In questi giorni di epidemia si è tornato a parlare (lo ha fatto anche Ilaria Capua in un’intervista a Linkiesta) degli effetti perversi dell’urbanizzazione. Che non è il neoliberismo, ma una tendenza comune a tutte le società contemporanee, di qualunque credo politico o religioso. Le megalopoli amplificano il rischio di contagio.
Che fare, allora? Kelman ammette di non avere una risposta: «Si sospetta che Ebola e molte altre malattie siano dovute al fatto che gli uomini si allarghino verso nuovi habitat, ritagliandosi uno spazio per sé dentro ecosistemi che ospitano gli agenti patogeni. Quando le popolazioni premono per spostarsi in aree prima disabitate, spesso per avidità ma anche alla ricerca di nuovi e più decenti mezzi di sussistenza, dovremmo scoraggiare questa mobilità, specialmente offrendo migliori alternative per vivere? O non dovremmo piuttosto accettare l’espansione del territorio umano ed essere preparati all’emergere o al riemergere delle malattie?». Nessuno è in grado di dirlo. L’unica cosa certa è che siamo tutti “pazienti zero”.