È nato ufficialmente un nuovo gruppo d’interesse all’interno dell’Unione europea. Con una lettera al Financial Times, i premier di Austria, Paesi Bassi, Svezia e Danimarca hanno annunciato il loro manifesto rigorista con cui si oppongono all’aumento del budget comunitario per il settennato 2021-2027, un bivio fondamentale per capire quanto sarà incisiva l’azione dell’Unione e in quali ambiti. Da due anni questi quattro Paesi, contributori netti, relativamente piccoli ma ricchi, lottano per evitare che gli Stati membri aumentino la quota versata ogni anno.
Per questo il Financial Times li ha soprannominati i frugal four, i quattro parsimoniosi, uniti con sfumature diverse da un sentimento transnazionale verso il rigore dei conti più che dall’appartenenza politica: infatti l’austriaco Sebastian Kurz è un conservatore, l’olandese Mark Rutte un liberale, la danese Mette Frederiksen e lo svedese Stefan Lofven sono due social-democratici. «Ora che abbiamo un’unione più piccola di 27 stati membri, dobbiamo tagliare il cappotto in base al tessuto a disposizione. L’approccio responsabile è stabilire le priorità nell’interesse dei nostri contribuenti» fanno notare i quattro premier a due giorni dalla riunione in cui si deciderà come e quanto spendere nei prossimi anni.
I frugal four chiedono tre cose. Primo, il budget 2021-2027 dovrà rimanere l’1% del reddito nazionale lordo dell’Unione europea. Una misura considerata fin troppo generosa visto che a causa dell’inflazione «significa più denaro, in termini nominali, rispetto all’attuale quadro finanziario e consentirebbe al bilancio dell’UE di continuare a crescere con l’economia». Secondo, cambiare la destinazione dei finanziamenti per concentrare più risorse nella «promozione di un’economia innovativa e competitiva, migrazione e sicurezza», così da avere un bilancio ambizioso e moderno che dedichi almeno il 25% della sua spesa all’azione per il clima». E soprattutto, spendere meno per «le politiche stabilite». Tradotto meno fondi per la politica di coesione e per la politica agricola comune. Terzo, una questione di metodo: un gestione più oculata delle spese amministrative «allineandole alle realtà nazionali» e una di merito: «vincolare la spesa a condizione dell’effettiva attuazione degli obiettivi politici a livello dell’UE e del rispetto dello stato di diritto». Il riferimento è ai Paesi come Ungheria e Polonia che ricevono finanziamenti europei ma si oppongono al ricollocamento dei richiedenti asilo negli Stati membri.
A oggi sono nove gli Stati i cui contributi versati a Bruxelles superano i finanziamenti che tornano indietro nel Paese sotto forma di progetti e investimenti europei. Dopo la Brexit, l’Italia salirà al quarto posto dietro Germania e Francia. Subito dopo i frugal four con la Finlandia. «I nostri quattro paesi più la Germania finiranno per finanziare il 75% dei pagamenti netti al bilancio dell’UE» Ecco spiegato perché la filosofia di fondo della lettera sembra simile a quella dell’ex premier inglese Margaret Thatcher che nel 1984. dopo quattro anni di attacchi al grido di «I want my money back» ottenne il rimborso dei fondi versati all’Ue perché la maggior parte del budget comunitario era destinato alla Politica agricola comune di cui Londra beneficiava poco o niente a causa della natura della sua economia. «Il successo del progetto europeo è misurato dalla nostra capacità di realizzare le nostre ambizioni politiche e raggiungere risultati tangibili per i nostri cittadini, non dalle dimensioni del bilancio». Dunque le dimensioni non contano se si sa dove spendere.
La pensano diversamente i 15 leader degli Stati dell’Est e Sud Europa che si sono riuniti in Portogallo il primo febbraio: Bulgaria, Cipro, Cechia, Estonia, Grecia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia e Spagna. Il gruppo de “Gli amici della coesione” non solo chiedono di mantenere i finanziamenti attuali per i fondi europei ma anche di abolire tutti i rimborsi agli Stati.
Al momento non c’è un compromesso. Il 20 febbraio i 27 leader degli Stati Ue si riuniranno in uno speciale Consiglio europeo per dirimere la questione a oltranza. Per trovare un accordo bisognerà sciogliere tre nodi: quanto spendere per lo European Green deal proposto dalla Commissione europea, quanti soldi si destineranno per Politica agricola comune e fondi di coesione e soprattutto: come si copriranno i costi della Brexit? Senza il Regno Unito mancheranno circa 10 miliardi all’anno nella migliore delle ipotesi.
Il presidente del Consiglio europeo, il belga Charles Michel ha proposto di alzare il bilancio complessivo 2021-27 all’1,074% del Pil dell’Unione, pari a 1094,8 miliardi di euro. Una nuova tassa sulla plastica non riciclata e il rafforzamento del Sistema per lo scambio delle quote di emissione Ets potrebbero portare circa 15 miliardi di euro l’anno e sostituire così il contributo degli inglesi. Ma per far tornare i conti, Michel ha previsto tagli ad alcuni fondi legati a ricerca e innovazione, ai flussi migratori e le frontiere.
Il portavoce della Commissione Ue, Eric Mamer lo considera un buon punto di partenza per il negoziato, mentre il presidente del Parlamento europeo David Sassoli lo ha già bocciato «Siamo a cifre che non si discostano dalla proposta della presidenza finlandese sulle quali il Parlamento europeo si è già espresso con chiarezza e a larghissima maggioranza. È una proposta che contraddice le proclamate ambizioni su tre priorità che gli Stati membri, non il Parlamento, hanno posto al centro della loro azione: il clima, il digitale e la dimensione geopolitica». Anche secondo il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri il piano di Michel è poco ambizioso, mentre il ministro agli Affari europei Enzo Amendola lamenta i pesanti tagli alla politica agricola comune per 7,5 miliardi. La differenza sembra minima, ma con questi numeri ogni decimale in più o in meno corrisponde a miliardi e miliardi di euro.