È con grande tranquillità circa le reazioni dell’autore che mi accingo a scrivere del libro di Luca Bottura inspiegabilmente non intitolato Prenderla bene. Dal dolente memoir, in uscita oggi col titolo “Buonisti un cazzo” (il primo “cazzo” del catalogo Feltrinelli: non sentite anche voi un frisson?), Bottura emerge infatti come nient’affatto permaloso: a istruirlo all’autoironia è stato Raimondo Vianello, e se non ve ne accorgete da nessuna riga del suo spirito di patate è un problema vostro. Ho sbagliato, non dovevano intitolarlo Prenderla bene, anche se un paio di righe verso la fine del libro sono il concetto di prenderla bene in purezza. Dovevano intitolarlo Una storia italiana, come quel libro di quel signore per cui, naturalmente, il Bottura pieno di sassolini nelle scarpe si vanta di non aver mai lavorato (c’è un cliché dell’elettore di sinistra cui Bottura sfugga? A cosa ti serve fare due battute a riga, oltre che a sembrare bulimico come un Travaglio minore, se poi non hai mai un guizzo, uno scarto, un’imprevedibilità?).
“Buonisti un cazzo” è un manifesto d’italianità; il paese che, dopo Portobello e Non è la Rai, ha inventato un solo format significativo: l’unione apparentemente impossibile di vittimismo e mitomania. Bottura principia la sua Recherche rievocando quel mito fondativo che è la volta in cui gli venne in mente di produrre delle magliette con scritto «Sono italiano ma non ho votato Berlusconi» (l’umorismo di Bottura ricorda quello di Carlo Pistarino assai più che quello non dico di Vianello ma anche di colui che egli più volte indica come l’uomo da cui ha imparato tutto, ovvero Michele Serra: tutti a occuparsi dei cattivi maestri, e nessuno che pensi a tutelare la reputazione dei maestri dagli allievi che imparano tutto tranne ciò che dovrebbero). Le magliette, dicevo: le propose a una società, gli dissero di no e poi le produssero e si arricchirono senza di lui. All’espressione “mito fondativo” Bottura apporrebbe un asterisco, li chiama «legenda per Toninelli», e servono come ammicco a quel pubblico che, somigliando a Bottura, pensa che i cretini sian sempre gli altri ma, non essendo all’altezza d’un complesso di superiorità praticato nel campionato professionisti, maramaldeggia sui Toninelli della situazione. Parlando a sé fingendo di parlare a Toninelli, Bottura annoterebbe: “antifrasi”.
Quando non scrive risate a denti stretti da rilegare in volume, Bottura fa l’autore televisivo. Non ho niente contro gli autori televisivi, ho molti amici autori televisivi: ce ne fosse uno che il programma più di successo del momento non era un’idea sua e non gliel’han rubata (direte: ma i programmi alla tv italiana non sono tutti format acquistati all’estero? Già: la squisita comicità del mitomane vittimista sta soprattutto in quel dettaglio lì). Comunque: siamo tutti Bottura, tutti Manuel Fantoni con innesto di paradigma vittimario, e quindi io sono arrivata a pagina 38, ove egli scrive «Lo scemo del villaggio ancora non sapeva di poter diventare lo scemo del villaggio globale», e ho pensato che ehi, io questa cosa l’ho scritta nel 2016, quando un pezzo di villaggio globale stava per eleggere Trump, e come minimo devo principiare un memoir dolente ma anche pieno di motteggi con questo seminale episodio di plagio che tanto colpisce me e interessa i lettori. Chissà se Adelphi me lo pubblica.
Quando non ci dice che lo hanno scippato della giusta gloria, Bottura ci dice che lui non è mica uno come noi, italiani senza etica. C’è un intero capitolo in cui ci fa un elenco d’esempi del suo essere onesto ai limiti della petulanza, tra gli episodi irrinunciabili ivi elencati c’è la volta in cui disse che lì non si poteva fumare all’accompagnatrice d’un giornalista di destra (del quale fa il nome, perché è giusto che l’accompagnarsi a fumatrici valga la delazione). Non sono quindi minimamente preoccupata che, a seguito di queste righe sul suo tomo, egli scriva da qualche parte d’avermi vista chiacchierare amabilmente con la badante di Gasparri. Né particolarmente stupita che, un attimo prima del capitolo sulle sue virtù antitaliane, egli ci avesse raccontato di quando lui e il suo amico superavano in Vespa con la striscia continua: siamo tutti Bottura, evasori fiscali e parcheggiatori in doppia fila e casta son sempre gli altri.
Siamo tutti Bottura, nessuno si senta escluso. Siamo noi questi dolenti non sufficientemente eruditi: l’autore si rammarica di non sapere abbastanza, e nel rievocare gli studi mollati butta lì quanto si sacrificassero per lui i genitori; e, come forse un autore di Maria De Filippi avrebbe qualche remora a fare, ci serve con apparente sbadatezza il dettaglio della madre anziana che, lavorando in nero per mantenerlo all’università, si rompe le ossa, ed essendo in nero nessuno la ripaga – e se neanche questo ricatto morale ti fa comprare il libro sei l’Italia che non vuole bene, anche se lui mai la formulerebbe così, per la stessa ragione per cui il suo Una storia italiana ha un altro titolo (e tra i molti sassolini contiene un rinfaccio a Rita Dalla Chiesa colpevole d’essersi decenni fa macchiata di televendite sulle reti di Silvio: nessuno è puro quanto Bottura, neanche le orfane di mafia). Siamo noi qui nel tinello questo piatto di grano – noi un po’ lavoratrice con le ossa rotte un po’ figlio scavezzacollo – mentre là in tv gli avidi rinnegano i loro avi: è proprio la trama d’una serie con Garko, speriamo ne facciano una nuova stagione.
Siamo noi questo continuo chiagni-e-fotti, un po’ trombone (Bottura dice d’una festa sui colli bolognesi che era «divertente, allegra, anche perché non c’era ancora Cesare Cremonini a rompere i maroni con la sua Vespa Special»; qualcuno lo avvisi che la rivalutazione di 50 Special si è compiuta da almeno un decennio: non c’è niente di più triste d’un anziano senza titoli di studio che non è neppure in sintonia con la cultura popolare); e molto vittimista: il Carlo Pistarino degli elzeviristi non cita il nome del quotidiano «con cui collaboro al momento della scrittura di questo libro», La Repubblica, buttando lì a scusante dell’omissione del nome un “mi cacciano spesso” che neanche Mia Farrow in Mariti e mogli, il film con cui il grande pubblico apprese l’esistenza del profilo psicologico denominato “passivo aggressivo”.
Siamo noi questi privilegiati depressi che una volta da piccoli son stati fatti uscire da una squadretta di calcio perché doveva giocare un bambino nuovo, e quel bambino nuovo era Maradona, e noi ancora la raccontiamo non come la volta in cui ci scansammo per far passare il genio, ma come quella in cui l’ingiustizia non ancora sanata ci colpì. «Ho perso un posto in radio perché me ne hanno offerto uno che sembrava migliore, ed era una trappola», riassume Luca-Lescarpepienedisassi-Bottura verso la fine del tomo, e sono due righe da far studiare a René Girard. «Trappola» è il nome che dà al fatto che, dopo un paio di mesi d’una dimenticabile striscia botturiana, il direttore di Radio Deejay si trovò con un personaggio che voleva fare un nuovo programma e, essendo il palinsesto fatto sempre delle stesse ventiquattr’ore, decise di fargli posto levando l’ultimo arrivato, quello di cui il pubblico avrebbe sentito meno la mancanza, insomma: Bottura.
Il personaggio cui far posto era un tal Rosario Fiorello, che in effetti pure io mi offenderei molto se qualche direttore di rete mi preferisse lui, e non escludo che dopo tre anni lo scriverei in un libro di sassolini a denti stretti. Concludendo poi – un po’ per far capire di cosa sto parlando pur evitando solo per quella volta di far nomi, un po’ per render chiara la mia sofisticata cifra stilistica d’autore che non si mischia con Mediaset – concludendo, dicevo, con la ficcante punchline «One Nation, One Station, One palo nel culo». Mi piace pensare che ci sarà una ristampa, e riuscirà a includere un ultimo sassolino. Quella volta che il Sanremo 2020 doveva salvarlo Bottura, ma era una trappola.