Succede sempre: arriva un momento della vita in cui ogni sportivo deve smettere. Colpa dell’età, degli acciacchi o della consapevolezza che non si potrà più essere all’altezza della propria reputazione. C’è chi chiude con un’ultima gara (truccata) come Alberto Tomba, chi viene sommerso da fischi (infami) come Paolo Maldini e chi, al contrario, preferisce liberare se stesso e i fan dall’impaccio di questo rituale. E scrive una lettera a Vogue e Vanity Fair.
Non è un caso che Maria Sharapova abbia scelto le due maggiori riviste femminili di moda e glamour del mondo per indirizzare il suo messaggio di addio al tennis. Perché è una diva, prima ancora che una campionessa. Perché nonostante l’amore, l’impegno e i sacrifici vissuti («Mi mancherà tutto», dice), non ha mai rinunciato allo stile, all’eleganza, al buon gusto. Perfino nel momento più buio della sua carriera, quando viene sospesa per doping, riesce a dire – quasi come un agonizzante Oscar Wilde contro la tappezzeria– che «non può finire qui, di fronte a questa orrenda moquette».
Eppure, nonostante la siberiana (approdata negli Usa a otto anni) sia stata una delle campionesse indiscusse degli ultimi 20 anni, unica avversaria di Serena Williams (anche se negli scontri diretti ha quasi sempre perso), la più giovane dopo Martina Hingis a vincere uno Slam, la più pagata al mondo per 11 anni di fila, non era lo stile il tratto dominante del suo gioco.
Sul campo si distingueva per pragmatismo. Battagliera, costruiva le partite con pochi colpi, sviluppati alla perfezione, dominando tutto dal fondo e cercando sempre il punto. A rete non scendeva quasi mai (è pur sempre una diva) e a detta di tutti la sua forza maggiore era la resistenza mentale. È grazie a quella, del resto, che torna a vincere dopo gli infortuni che hanno costellato la sua carriera e i doverosi 15 mesi di stop per avere assunto il Meldonium.
Nonostante questi eroismi (molto russi, si potrebbe dire, se fossero validi i luoghi comuni sulle nazionalità) c’è da dubitare che uno scrittore appassionato di tennis – e tennista lui stesso – come David Foster Wallace potesse scrivere di lei ciò che pensava su Roger Federer. Avrebbe trovato in lei «la bellezza cinetica», cioè «la riconciliazione degli esseri umani e il fatto di avere un corpo» del tennista? O piuttosto avrebbe riscontrato la più superficiale ma meno fumosa bellezza in sé, oggettiva, estetica, che le è valsa il titolo di sportiva più sexy del decennio secondo Bleacher Report? Avrebbe forse anatomizzato il suo rituale di tiro – posizione iniziale quasi frontale, pallina che rimbalza due volte, gambe distanziate che vanno a chiudersi al momento della battuta per imprimere maggior forza – magari mettendolo a confronto con il piatto senza effetto di Connors? O piuttosto si sarebbe lasciato distrarre, come tanti uomini dopo di lui, dal celebre grunting, cioè i gemiti con cui Sharapova accompagnava i suoi servizi, vuoi per lo sforzo fisico o per un tic nervoso, innervosendo le avversarie? (Alcune poi la hanno anche imitata).
Perché Sharapova significa anche questo, oltre al fatto di essere una sportiva algida e distaccata (sempre se fossero validi i luoghi comuni sulle nazionalità, qualcuno confermerebbe: “russa”), scostante nei confronti delle avversarie («Devo batterle, non fare amicizia») e che odiava lo spogliatoio. Una star, consapevole di esserlo e a suo agio nel ruolo. Tra uno Slam e l’altro (ne vince cinque in tutto) guadagna copertine e ritratti, sempre fotografata e apprezzata per i suoi look, lodata per lo stile (appunto), paparazzata per le relazioni sentimentali, fuoriclasse sempre.
Vederla non sarà stato, come Federer per Foster Wallace, «un’esperienza religiosa», a meno che non la si declini, la suddetta religione, in senso calvinista. Perché la Sharapova è anche una macchina di soldi. Secondo Forbes il suo giro di affari si aggira intorno ai 325 milioni di dollari (dopo i 350 di Serena Williams) soltanto per i premi e le sponsorizzazioni. In più, approfittando di un master a Harvard, ha anche lanciato la sua attività imprenditoriale, le caramelle Sugarpova, dal design elegante e, con quelle labbra strette a bacio, un filo sexy. Questo la rende facile bersaglio dei crociati anti-zucchero, che avrebbero preferito investimenti in prodotti più sani. Ma lei, tenace come sul campo, ha sempre risposto colpo su colpo.
E adesso se ne va. Le mancherà il tennis, dice, la «montagna» su cui è salita e dalla quale ha potuto vedere, più lontano e definito, l’orizzonte. Le mancherà, insomma, quella parte di vita che è stata tutta la sua vita fino a quel momento. Troverà altro da fare, dice. Altri ostacoli da superare e imprese da realizzare. Qualcosa che le dia la stessa soddisfazione. Per il momento le Sugarpova, con i 20 milioni di revenue nel 2019 sono un buon candidato.