L’antidoto è fatturare più di primaMilano non si ferma, viaggio nella città che vuole tornare a correre

Siamo andati a vedere i locali e le attività commerciali che hanno ripreso a lavorare a tempo pieno. La gente in giro ancora scarseggia, ma il messaggio di ottimismo del sindaco Beppe Sala fa ben sperare

Pixabay

Forse non sarà uno spot a debellare il coronavirus, ma serve a ridare speranza alle persone. E a stimolare la fiducia per riportare la vita cittadina alla normalità in tempi brevi. Così, il video messaggio condiviso da Beppe Sala per la città di Milano, ideato dall’Unione dei Brand della Ristorazione Italiana e diventato virale in poche ore (sebbene di milanese abbia molto poco, a parte gli scorci urbani – i visi che appaiono sembrano immagini di repertorio di pubblicità americane), marca il nuovo passo che la città sta già prendendo, e deve prendere. «Milano non si ferma» è il concetto (e l’hashtag) lanciato insieme al video. Basta farsi un giro per la città per capire quanto si abbia voglia e bisogno di ripartire. Nonostante le polemiche e le incertezze legate al coronavirus.

Lo stop è durato solo tre giorni, ma l’impatto è stato istantaneo. Bar, locali e negozi sono tutti aperti, a breve dovrebbero riaprire anche i musei (sulle scuole, invece, si deciderà nel fine settimana), e anche la circolazione sta iniziando a recuperare il suo normale passo. Ma di gente in giro ce n’è ancora poca, troppo poca: sono bastati pochi giorni per mettere in ginocchio turismo e commercio di una città e una regione intere, motore produttivo per tutto il Paese. Questione più di isteria collettiva che non di tasso di contagi. Ormai sembra stia iniziando a stabilizzarsi. È un’ansia frutto di un evidente problema di comunicazione a tutti i livelli – dalle autorità sanitarie e politiche ai media – i quali certo non hanno contribuito a trasmettere la calma. Beppe Sala se n’è accorto (e non solo lui), per cui adesso è ripartita la corsa per evitare che la paura incancrenisca l’economia.

«In questi giorni abbiamo toccato il 70% di clienti in meno», dice un barista di un caffè sotto al palazzo della Regione, una delle zone più dense di uffici della città. «La gente che può lavora da casa». «Noi continuiamo ad essere aperti a pranzo e a cena, ma notiamo l’afflusso ridotto soprattutto sui pranzi, che sono quelli su cui lavoriamo di più», dice il responsabile di Pizzium, nella stessa zona. «Abbiamo dato un po’ di permessi ai ragazzi per via della scarsità di clienti, ma non siamo mai stati realmente preoccupati. C’è tanta voglia di ritornare alla normalità, questo sì».

Il viavai del traffico fa pensare ad una giornata normale, solo un po’ più tranquilla del solito. Al Frida, storico locale dell’Isola, si è rimasti chiusi la sera da lunedì a mercoledì. «Il via libera per le riaperture dopo le 18 era attivo già da martedì, ma non abbiamo fatto in tempo a organizzarci tra la cucina e il resto. Riapriremo stasera (ieri, ndr)», dice il titolare a Linkiesta. «Sulla chiusura anticipata ci siamo affidati al buon senso delle autorità. Adesso il banco di prova sarà il weekend: questo è un posto che si affolla molto la sera, e il fatto di dover far sedere tutti ai tavolini, senza avvicinarsi al bancone, costituisce un ostacolo organizzativo. Ma siamo fiduciosi che si possa tornare presto ai soliti ritmi». E se il coronavirus rimane argomento di conversazione – «non si parla d’altro» – dice ancora il gestore, perlomeno di mascherine, da queste parti, non se ne sono viste: «per tanta gente questo posto è casa».

Alla Fondazione Feltrinelli, in zona Garibaldi, gli eventi sono stati rinviati a data da destinarsi; la sala studio per il momento resta chiusa. Il ragazzo alla reception però è tranquillo, «tanto non passa nessuno», dice. Negli uffici ai piani superiori, il lavoro prosegue normalmente per due terzi degli impiegati. «È stata data la possibilità a chi doveva spostarsi con i mezzi pubblici di restare a casa», precisa il receptionist. La vicina Microsoft, invece, è rimasta chiusa, mentre Accenture, che ha sede sempre in zona, era aperta. Al quartier generale di Amazon, i dipendenti hanno seguito le direttive ministeriali, raccomandando ai lavoratori provenienti dalle zone rosse di restare a casa, e lasciando agli altri la scelta se venire in ufficio o meno. Nell’atrio di ingresso, pile di volantini con le indicazioni sanitarie da seguire – lavarsi spesso le mani, starnutire nella piega del gomito, eccetera. Un normale invito a osservare una opportuna dose di cautela e attenzione verso norme igieniche che, del resto, bisognerebbe sempre seguire. «È stato giusto fermare le attività, ma la fobia della gente è stata eccessiva», dice ancora l’impiegato della Feltrinelli. Da parte loro, sono «pronti a far ripartire tutto non appena ci sarà l’ordine di riapertura».

Anche dai dirimpettai di Eataly, in piazza Venticinque Aprile, c’è meno gente del solito, ma le attività proseguono, fatta eccezione per i ristoranti, che per il momento restano chiusi la sera. «La gente si è spaventata per come sono state raccontate le notizie, il primo giorno sembrava che si potesse morire se si usciva di casa», dice un ragazzo.

Al mercato di via San Marco del giovedì mattina, invece, c’è calma piatta. «È vuoto, io negli altri giorni della settimana copro le zone di Comasina e via Melchiorre Gioia, ed è così dappertutto», racconta a Linkiesta un commerciante di prodotti caseari e gastronomia dall’interno del suo furgone. Ma c’è a chi è andata peggio: «dal Ministero della Salute è arrivata la direttiva di stop alle bancarelle dei vestiti, al sabato e alla domenica sono ammessi solo gli stand di alimentari». Mentre impacchetta i suoi formaggi, condivide la verità che vale per tutti: «fermarsi non si può, perché tanto l’affitto dello spazio bisogna pagarlo comunque. I danni li misureremo dopo».

Anche nel cortile dell’Accademia di Brera regna il silenzio, mentre i ristorantini, che normalmente fanno 300 coperti a turno, in questi giorni ne stano coprendo 50 o meno. «Oggi però va un po’ meglio, a poco a poco ci stiamo riprendendo», dice un cameriere. Anche loro sono sempre rimasti aperti: imperativo, volenti o nolenti, cercare di portare avanti una vita lavorativa normale. Usciti dal dedalo di viuzze, ci si ritrova davanti ad una stazione di taxi: sono almeno una decina le auto bianche in sosta. «Si lavora poco, sono fermo qui da 40 minuti, di solito ne passano non più di 4 o 5», dice un tassista. «Dalle 20 corse giornaliere che faccio di solito, oggi ne ho contate sei». Mancano i turisti, certo, ma anche i manager che vanno alle riunioni e gli anziani che si fanno portare in ospedale. «In altre zone è uguale. La stazione centrale è deserta», aggiunge l’uomo da dietro al volante. Per fortuna, parte un bip di chiamata: «scusi, questa la prendo», dice accendendo il motore.

Il chioschetto di panini e bibite di piazza Cairoli, al cuore di quella che è la classica passeggiata dei turisti tra piazza Duomo e il Castello Sforzesco, è testimone in prima linea del calo degli afflussi. «Da domenica c’è stato un crollo. In tutta la giornata di mercoledì abbiamo venduto un’acqua, una coca e un pacchetto di patatine. Oggi (ieri, ndr) va un po’ meglio, ma è una situazione assurda». I fornitori hanno raccomandato di fare scorte subito, nonostante gli incassi di queste giornate siano miseri: «i camion dei rifornimenti rischiano di non arrivare nei prossimi giorni, perché hanno fermato alcuni autisti». Anche negli hotel del centro in molti hanno cancellato le prenotazioni, tant’è che lo stesso sindaco ha chiesto una mano agli albergatori in vista del Salone del Mobile, rinviato a giugno, per abbassare un po’ i prezzi delle camere.

La Milano al tempo del coronavirus è qualcosa a metà tra il periodo di Ferragosto e una classica domenica in periferia. Solo che manca l’afa e qui siamo in pieno centro. Qualcosa nell’aria suggerisce di essere agli sgoccioli di queste giornate strane: tanto per cominciare, la corsa allo svuotamento dei supermercati e la razzia delle farmacie sembra essersi esaurita. Ma la psicologia della gente è più lenta rispetto allo scorrere delle notizie, meno puntuale degli orari di apertura di negozi e locali. Per questo è fondamentale agire da subito per riportare un sentimento di positività tra gli abitanti della città. Soprattutto in Chinatown, vero deserto della metropoli, dove le serrande sono ancora tutte abbassate, i cinesi girano tutti con la mascherina e la gente è reticente a parlare, dopo essere stata subissata di visite di giornalisti forse un po’ troppo impertinenti nei giorni scorsi. Ecco, se c’è un posto di cui Milano, nella sua ripresa, deve avere particolare cura, mostrandogli il proprio affetto e scacciando la paura, è proprio quello. In attesa, come dicono quelli del Milanese Imbruttito, di «tornare a fatturare più di prima».

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