In memoria di madibaI 30 anni dalla liberazione di Nelson Mandela, mito della battaglia globale per la libertà

Venne rilasciato dopo il crollo dell’Urss. Combattente contro la segregazione razziale, divenne dopo la prigione il presidente della pacificazione nazionale tra bianchi e neri

Trent’anni fa, domenica 11 febbraio 1990, Nelson Mandela torna in libertà. A 72 anni, dopo 27 di reclusione, era il più anziano prigioniero politico del mondo.

È una notizia un po’ a sorpresa, per una opinione pubblica occidentale, negli ultimi mesi concentrata soprattutto su quello che sta accadendo nell’Europa dell’Est. Ma in realtà non è estranea al contraccolpo di eventi che ha avuto come culmine la caduta del Muro di Berlino. In tutta l’Africa, infatti, lo spettacolo tv delle piazze in rivolta contro i partiti unici comunisti ha ispirato una ondata di sommosse anche contro i partiti unici e i regimi autoritari locali. E poi, il collasso sovietico toglie di mezzo quella che era stata una delle principali paure alla base del regime dell’apartheid. Il timore dei bianchi soprattutto “boeri”, cioè, che la maggioranza nera potesse imporre un regime espropriatore ispirato al comunismo moscovita.

Negoziati segreti, in effetti, sono in corso da tempo. Ma è il 2 febbraio 1990 che il presidente Frederik de Klerk annuncia la legalizzazione dell’African National Congress, e la prossima scarcerazione del suo leader «senza condizioni». Ormai passato dal ruolo di terrorista a quello di garante dei diritti dei bianchi, Mandela torna in libertà nove giorni dopo. Centinaia di reporter e fotografi accorrono a fotografare e filmare la moglie Winnie che viene a prenderlo, in un carcere a una sessantina di chilometri di Città del Capo.

Il programma iniziale è che i due escano in auto. Accettando però la richiesta di un presentatore dell’emittente pubblica Sabc, Mandela si mette a camminare qualche centinaio di metri prima del portone, in modo da permettere a milioni di telespettatori di vedere lo storico momento live. Capelli bianchi, abito a righe grigie con camicia bianca, tasche quadrate e cravatta blu, il vecchio leader procede dignitoso e impettito, tenendo per la mano la moglie in nero. Una mare di bandiere dell’Anc lo accoglie, agitate da una folla che grida: «Lunga vita a Mandela! Lunga vita all’Anc! Libertà! Libertà!». Non pronuncia però neanche una parola, e si limita a salutare due volte. Col pugno chiuso: ma un pugno relativamente soft. Parlerà invece Winnie a Città del Capo, in serata.

In tutte le città del Sudafrica i neri si mettono a ballare per le strade. Non mancano gli incidenti. A Città del Capo in centinaia si mettono a saccheggiare i negozi, e la polizia spara per disperderli. A Johannesburg ci sono scontri. Davanti alla casa di Mandela a Soweto appare un cartello: “Soweto non è uno zoo per i turisti razzisti bianchi. Tornatevene a casa”. Molti bianchi sono preoccupati. Ma de Klerk ormai ha fatto la sua scelta.

La mattina di sabato 10 febbraio aveva scatenato i servizi di stampa governativi sulle tracce dei giornalisti stranieri, per convocarli a una conferenza stampa. Alle 17, in un caldo soffocante, 653 giornalisti stranieri accreditati e i loro colleghi sudafricani erano stati concentrati nel grande auditorium. In abito blu, cravatta e camicia bianca De Klerk ha esordito in modo quasi anodino. «Il signor Mandela verrà rilasciato di fronte alla prigione di Victor Verster, domani domenica 11 febbraio 1990, alle ore 15». Poi tira fuori la bomba: venerdì sera è andato lui di persona a parlare col leader “terrorista” ancora in carcere. «Ho incontrato un vecchio, degno e interessante. La nostra conversazione è stata cortese».

Non hanno chiacchierato del tempo. «Gli ho chiesto di creare le condizioni per sollevare lo stato di emergenza», ha rivelato de Klerk. «Domani vedrà la fine di un lungo capitolo». «Non c’è dubbio sulla sincerità del governo», ha promesso. E per quanto riguarda la sicurezza di Mandela: «La polizia probabilmente non ne sarà responsabile».

In realtà Mandela, nato il 18 luglio 1918 nel villaggio di Mvezo, si chiamava Rolihlahla: un nome che alla lettera significa “tirarami” e in senso traslato “piantagrane” o “rompiscatole”, per aver tirato in quantità calci nella pancia di sua madre durante la gravidanza. Ma a sette anni un insegnante della scuola metodista che frequentava glielo ha cambiato con Nelson: come l’ammiraglio di cui è un grande ammiratore. A trent’anni, assieme all’amico Oliver Tambo ha aperto il primo studio di avvocati gestito da neri nella storia sudafricana. A 34 per la prima volta ha guidato una azione di disobbedienza civile ed è finito in carcere. A 43 anni è entrato in clandestinità alla testa della nuova organizzazione armata Umkhoto we Sizwe: “Lancia della Nazione”. A 44 anni lo hanno preso. A 46 è stato condannato. A 72, appunto, è tornato libero. A 74, il 10 maggio 1994, si insedierà come presidente del Sudafrica, proprio lo stesso giorno in cui diventa Presidente del Consiglio in Italia Silvio Berlusconi. Lascerà la carica dopo un solo mandato il 14 giugno 1999, vivrà altri 16 anni, e morirà a 95 anni il 5 dicembre 2013, con la soddisfazione di aver visto il nero Barack Obama alla Casa Bianca.

Una delle massime icone rivoluzionarie del XX secolo, veniva dall’aristocrazia tribale. Il suo bisnonno, Sua Maestà Ngubengcuka, era stato re del popolo Thembu prima della conquista coloniale britannica. Suo nonno si chiamava Mandela: nome che poi divenne il cognome di famiglia. Suo padre, Gadla Henry Mphakanyiswa, apparteneva a un ramo dinastico collaterale escluso dalla successione, ma era comunque il capo del villaggio, e un consigliere del sovrano. Nominato nel 1915 dopo che il suo predecessore era stato destituito da un magistrato bianco per allegata corruzione, anche Galda sarebbe stato però destituito nel 1936, per le stesse ragioni: anche se stando al figlio era in realtà quel magistrato che montava accuse pretestuose contro i neri non docili ai suoi diktat. Mamma Nosekeni Fanny proveniva da un clan potente, ma era sono la terza delle quattro mogli del capo, ognuna in un villaggio diverso.

«Papà era poligamo» ricorda con un lampo di malizia il Nelson Mandela interpretato da Morgan Freeman nel film Invictus – L’invincibile. Era stato anche un pagano, seguace di quel dio Qamata che nel mito xhosa è figlio del Sole e della Terra. Il cambio di nome da Rolihlahla a Nelson aveva dunque segnato il passaggio dalla cultura pagana-poligamica-rurale del padre a quella metodista-monogamica-urbana nella quale vivrà il figlio. Orfano a nove anni per colpa della tubercolosi, Nelson era stato infatti preso sotto la tutela del reggente Dalindebo, in attesa di poter entrare nel Consiglio Privato a sua volta. Diplomato a 19 anni, era andato a studiare Diritto a quella Fort Hare che all’epoca era l’unica università aperta ai neri di tutta l’Africa al sud dell’Equatore. Ma quando il tutore aveva cercato di combinargli un matrimonio non di suo gusto aveva rotto con la società tribale, e a 23 anni se ne era andato a Johannesburg.

Tra gli oltre 250 premi che Nelson Mandela ha preso nel corso della sua vita, spicca in teoria il Premio Nobel per la Pace: che gli diedero nel 1993 assieme a de Klerk. Quello stesso de Klerk che dopo averlo liberato ed aver trattato con lui la transizione tra 1994 e 1996 gli avrebbe poi fatto da vicepresidente. Ma forse più significativo ancora è l’essere stato l’unica persona al mondo a avere sia la Presidential Medal of Freedom statunitense che l’Ordine di Lenin e il Premio Lenin per la Pace. Quest’ultimo, preso nel 1990 da una Urss moribonda mentre era ancora in carcere, sarebbe stato ritirato nel 2002, 11 anni dopo la dissoluzione dell’Unione. «Il mondo è cambiato da allora e l’Unione sovietica con gli altri Stati socialisti allora esistenti sono scomparsi», disse nel discorso di accettazione. «Non è compito nostro lamentare sviluppi che i popoli di questi Paesi hanno desiderato e acclamato. Ma non è neanche compito nostro negare il valore dell’appoggio che ricevemmo da quei Paesi o mascherare l’immenso apprezzamento che per questi Paesi avemmo».

Quello stesso 2002 andò però anche a ritirare la medaglia Usa da George W. Bush: con uno speciale permesso, perché stava ancora in una vecchia lista di sospettati di legami con il terrorismo.

Insomma, un leader quanto mai eclettico. Nel suo appartamento negli anni ’50 aveva appesi i ritratti di Franklin Delano Roosevelt, Winston Churchill, Stalin e Gandhi, più la presa del Palazzo d’Inverno a Pietrogrado. Aristocratico nipote di re imbrancatosi coi comunisti; capo guerrigliero formatosi sullo studio contemporaneo di Mao, Che Guevara, Clausewitz e Menahem Begin; avversario del potere boero che passò i suoi 27 anni di detenzione a imparare l’afrikaans e dichiarò la sua ammirazione per i comandanti della guerra di Orange e Transvaal contro gli inglesi; Mandela al processo del 1960 si dichiarò disponibile al partito unico; in quello del 1962 lodò la monarchia tradizionale xhosa; nell’altro del 1964 celebrò il Parlamento inglese; diventato Presidente ha privatizzato a tutto spiano.

In altri personaggi, un atteggiamento del genere sarebbe risultato irritante. In lui è diventata parte di un mito che gli ha visto dedicare film, canzoni, francobolli e monete; costruire statue ancora vivo; veder perfino dare il suo nome al ragnetto Stasimopus mandelai. Probabilmente, perché solo un personaggio così eclettico avrebbe potuto tenere assieme senza sangue, e mantenendo al contempo i principi dell’”un uomo un voto” e del “più partiti” un Paese dalle quattro razze e dalle undici lingue ufficiali.

In realtà, i cinque anni della sua Presidenza furono dimessi. Ma in fondo fu una Presidenza memorabile proprio perché si sforzò di non esserlo: preferendo una Commissione per la Verità a epurazioni giacobine; e l’empowerment per far crescere un ceto imprenditoriale nero a nazionalizzazioni o espropri; e una politica di amicizia con tutti.

Soprattutto, spettacolare differenza rispetto a tanti eroi liberatori del Terzo Mondo poi metamorfosati in eterni satrapi, dopo il primo mandato rifiutò di ricandidarsi. Undici mesi prima di lasciare il suo ruolo Nelson si sposò per la terza volta: con Graça Machel, classe 1945, vedova di un presidente mozambicano morto in un incidente aereo 12 anni prima. Con la sposina, non bella ma colta e dai modi dolci, l’unica donna a essere stata first lady di due Paesi diversi, ha concluso una vita grande e tempestosa godendosi una lunga pensione. Da monumento vivente a sé stesso.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club