Gli avvocati della Camera penale di Milano hanno riservato un caldo e ironico benvenuto a Piercamillo Davigo, un magistrato che non li ama (ampiamente ricambiato, va detto).
Per l’occasione, e con una certa perfidia – come ha sottolineato il presidente Andrea Soliani – i legali hanno rispolverato il rituale riservato dalla magistratura milanese dieci anni fa all’allora guardasigilli Angelino Alfano e, ancora prima, all’“ingegnere“ Roberto Castelli, sicuramente i più detestati dall’Anm: sono usciti dall’aula all’inizio del saluto di Davigo, intervenuto in rappresentanza del Csm, e insieme hanno esibito manifesti con gli articoli della Costituzione sul diritto di difesa e la presunzione di non colpevolezza, proprio quelli che per l’ex pm che voleva «rivoltare l’Italia come un calzino» non sono mai stati un “must”.
L’effetto era assicurato. E ha permesso agli avvocati milanesi di rimediare a un mezzo scivolone istituzionale fatto il giorno prima, quando avevano domandato al Csm di inviare a Milano, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, un magistrato più gradito. Un po’ troppo in effetti. Ma la protesta è stata civile, a coronamento di un periodo di lotte in cui tutta l’avvocatura italiana ha saputo dimostrare insospettate capacità mediatiche e di dialogo nel tentativo, finora vano, di bloccare la riforma Bonafede sulla prescrizione.
Tuttavia l’iniziativa non è piaciuta al “sommo vate” del giustizialismo italiano Marco Travaglio: ha trovato intollerabile l’offesa fatta a Davigo, dal momento che gli avvocati «non erano a casa loro». Erano a casa loro invece i ministri Alfano e Castelli, quando furono contestati dai magistrati in manifestazioni organizzate dalla loro associazione e applaudite da Travaglio.
Come al solito, due pesi e due misure. Ma il giustizialista numero uno non risparmia nemmeno alcuni importanti magistrati, colpevoli di avere smentito, cifre alla mano, le sue stesse bufale, cioè quelle secondo cui «la prescrizione falcia 120.000 processi l’anno».
A infastidire il direttore del Fatto è stato scoprire che la protesta sulla prescrizione ha trovato alleati insperati: se non l’Anm, molto critica nelle parole del presidente Luca Poniz (impegnato come d’abitudine a rabbonire le frange contestatrici), hanno fornito il loro appoggio personalità importanti della Corte di Cassazione: il primo presidente Giovanni Mammone e il procuratore generale Giovanni Salvi. Il secondo ha pronunciato una vera e propria requisitoria contro «il governo della paura» i cui scopi “giusti“ sono quelli ricavati «dalla discussione mediatica», con una politica interessata ai «soli risvolti punitivi».
Si sono aggiunti anche il procuratore generale di Milano Roberto Alfonso, e il presidente della Corte d’Appello di Roma, Luciano Panzani, pronti a smentire (con la forza dei numeri) le analisi catastrofiste dei nemici della prescrizione.
Nel capoluogo lombardo, per capirsi, la percentuale di procedimenti estinti per prescrizione è, in totale, inferiore al 3%, di cui il 3,95% in fase di indagini preliminari. Un problema così modesto da essere inesistenti. A Roma, dove la situazione è ben più critica in Corte di Appello (oltre il 20% dei procedimenti complessivamente definiti in secondo grado si chiude con la dichiarazione di estinzione dei reati per decorso del tempo) la percentuale complessiva di prescrizioni sul totale dei processi è inferiore al 10 %. Si può parlare di emergenza?
I processi penali pendenti “in tutti i gradi”, al 30 giugno 2019 sono 1.493.000. E sono in calo: nel 2013 erano 1.663.000. Una diminuzione del 10%. In questo contesto, al morte “per vecchiaia” di 120mila procedimenti è, insomma, fisiologica. Anzi, benefica: evita l’esplosione degli uffici giudiziari.
Perché il vero problema, come concordano già tutti, non è la prescrizione, ma l’irragionevole durata del processo. Chi si trova ad affrontare un itinerario giudiziario per reati di una certa rilevanza deve calcolare almeno un decennio e più di permanenza nelle aule. Uno stop definitivo della decorrenza allungherebbe i termini in modo intollerabile. E all’idea accarezzata dal ministro Alfonso Bonafede di imporre, con sanzioni disciplinari, tempi accelerati ai magistrati, l’Anm ha risposto picche. Ulteriore riprova che alla prescrizione dei reati non ci può essere alternativa, a meno di non considerare tale la scomparsa delle parti per cause naturali.
Addirittura, il presidente romano Panzani si è lasciato andare a un auspicio di «un’aministia mirata», come ai bei tempi di Mastella e Darida, democristiani di grande pragmatismo. Chi lo avrebbe detto che sarebbe toccato rimpiangerli.
In sostanza, la cancellazione della prescrizione è un falso problema, un mito populista. E proprio per questo alimenta un grave pericolo. Come argomenta Giovanni Salvi, «la tentazione del “governo della paura” ha riflessi anche sui pm». Dal desiderio di «rassicurazione sociale» a «proporsi come inquirente senza macchia e senza paura, il passo non è poi troppo lungo».
Ecco: qui sta il punto che spiega gli inaspettati toni concilianti delle alte cariche. Si avverte, all’interno della magistratura, il rischio che crescano spinte rivendicazioniste, insieme a tentazioni autoritarie – se non eversive – anche sulla scia dello scandalo estivo delle nomine degli incarichi direttivi al Csm.
Sono i fantasmi che si aggirano nelle aule di Roma e Milano. Uno di questi parlava, negli stessi momenti, a Catanzaro: Nicola Gratteri, il capo della Direzione antimafia, incitava i calabresi ad andare a trovarlo e riferirgli a voce le loro denunce, sottolineando con orgoglio di averne a centinaia fuori dall’uscio. Si spera che non facciano anche i selfie, alla Salvini.
Battute a parte, il rischio di semplificazioni e strumentalizzazioni è elevato, come quello che si scavi un fossato incolmabile tra magistratura e avvocatura, da cui potrà venire fuori un nuovo emulo di Davigo che farà rimpiangere le battute dell’originale in tv. Peraltro nessuno può negare che Davigo sia bravissimo nei calembour (come Travaglio), mentre altri non pare abbiano lo stesso talento. Ma la parabola del giudice brasiliano Sergio Moro, idolo dei giustizialisti, persecutore del premier Lula, divenuto Ministro di Giustizia prima di essere beccato a truccare le carte dei processi, fa riflettere.
Occorre dunque, dopo la protesta, che i rappresentanti dei corpi intermedi della giustizia abbiano nervi saldi e scelgano di ragionare. In fin dei conti c’è un governo che dimostra che stare sotto lo stesso tetto dopo essersi tanto odiati è possibile: basta sapere che il peggio è fuori dalla porta, nel cortile di casa.