Questa notte si vota in South Carolina, quarta tornata delle primarie democratiche. Il vincitore annunciato questa volta è Joe Biden, ex vicepresidente con Barack Obama e, anche grazie a questo, forte di un largo consenso tra gli elettori afroamericani dello stato del Sud-Est affacciato sull’Atlantico. Così garantisce Fivethirtyeight, il sito di matematica elettorale fondato da Nate Silver, lo statistico e giornalista divenuto celebre per aver azzeccato le previsioni delle elezioni presidenziali più recenti. Lo stesso sito avverte però che il Super Tuesday del 3 marzo – quando si voterà in 14 Stati, compresi Texas e California, i più popolosi – sarà, dopo lo spoglio delle schede elettorali, la definitiva glorificazione di Bernie Sanders.
Sarà lui a quel punto il candidato (quasi) solitario dei democratici per la nomination. La marcia di Bernie Sanders potrebbe diventare inarrestabile. Questa prospettiva terrorizza non poco i democratici americani. Tutto ciò che Sanders rappresenta – le sue idee radicali, il suo dogmatismo ottuso, la feroce prepotenza dei suoi seguaci, il suo disprezzo per le regole del partito – è completamente estraneo al tessuto intellettuale e culturale di Washington. Per queste ragioni la candidatura dell’anziano senatore del Vermont è considerata da tutti gli altri democratici una sciagura.
Sanders è l’incubo populista che si materializza nel partito democratico dopo aver già masticato e digerito, con Donald Trump, il partito repubblicano. «Ho appena visto il populismo distruggere il tradizionale conservatorismo nel Gop (il Grand Old Party, cioè il partito repubblicano, ndr). Sono qui per dirvi che Bernie Sanders non è un democratico liberale. Lui è ciò che soppianta i democratici liberali», avverte David Brooks dalle colonne del New York Times. «Le radici intellettuali del liberalismo – continua Brooks – risalgono a John Stuart Mill, a John Locke, al movimento cristiano sociale e al New Deal. Questo liberalismo ha sempre creduto che il potere si basa sulla costruzione delle coalizioni, sul rispetto del sistema costituzionale e sulle intese necessarie in una società complessa e pluralistica». Viceversa, «i populisti come Sanders ritengono che l’intero sistema politico-istituzionale sia irrimediabilmente corrotto.
Come membro del Congresso, Sanders non ha mai creduto al cambiamento che si può realizzare attraverso le istituzioni liberali. Crede piuttosto nella mobilitazione di una massa rivoluzionaria che, una volta vinte le elezioni, governa con la dittatura della maggioranza. Questo è il modo in cui i populisti di sinistra e di destra governano in tutto il mondo. Ed è esattamente ciò che i padri fondatori degli Stati Uniti temevano di più e si sforzavano di impedire».
Parole pesanti che annunciano l’incubo in cui l’America rischia di sprofondare: il duello finale tra due populisti – Trump e Sanders – con la conseguente eliminazione della cultura liberale dal campo della democrazia americana. D’altra parte, nell’era di Donald Trump, caratterizzata dall’eccesso di polarizzazione e di faziosità nello scontro tra i due partiti storici, dalla sfiducia diffusa verso le istituzioni federali e dal peso enorme dei social media nelle dispute politico-elettorali, Sanders sembra il candidato costruito su misura per sfidare il presidente in carica.
In primo luogo, a differenza degli altri democratici in gara, Sanders appare come una icona pop, come un “prodotto culturale” che trascende la politica. Una specie di Alessandro Di Battista americano, o di Roberto Saviano, ma molto più celebre. «Ovunque ti giri trovi Sanders», dice Peter Hamby di Vanity Fair. «Ci sono murales di Sanders in quasi tutte le città di questo paese. I suoi devoti seguaci scorazzano su Internet. Sanders ha più consensi da parte di celebrità e di musicisti di qualsiasi altro politico democratico. The Strokes, Vampire Weekend e Bon Iver si sono esibiti nei concerti a lui dedicati nell’Iowa e nel New Hampshire. Spesso sono gli stessi personaggi che hanno sostenuto Obama ai tempi della sua candidatura. Pare strano, ma per molti milioni di persone – specie tra gli elettori poco interessati alla politica, che sono poi la maggior parte degli americani – Bernie è figo».
Ed è considerato figo soprattutto tra i Millennials e la Generazione Z. In questo gruppo demografico, probabilmente il più grande serbatoio di voti del paese, Sanders gode di largo consenso: secondo i sondaggi della Quinnipiac University, il 53% degli elettori democratici sotto i 35 anni lo voterebbe. Ovviamente parliamo dei giovani più radicali, quelli che si riconoscono nella nuova icona di Alexandria Ocasio-Cortez, la giovanissima deputata che, alla maniera grillina, è entrata al Congresso per rivoltarlo come un calzino e che rappresenta uno dei pilastri più solidi della campagna di Sanders. Non solo. Cardi B, una rapper e star televisiva di New York, si rivolge a Sanders chiamandolo affettuosamente “Daddy Bernie”, a conferma del seguito che egli ha tra i giovani di Instagram, Snapchat e TikTok. Una vasta schiera di giovani – equivalente, per intenderci con una geografia italiana, a un “campo largo” che va dai centri sociali della sinistra romana alle sardine emiliane al Papeete di Rimini – fa il tifo per Sanders.
Ma non si tratta di solo tifo. Negli Usa è in corso da mesi un acceso dibattito sulla Internet Army del candidato estremista, ovvero sulle falangi “armate” che nella rete sono pronte a blastare e demolire, spesso con accenti sessisti e razzisti, chiunque osi criticare il leader. Una sorta di esercito di troll del Vaffa grillino in salsa americana e di sinistra – migliaia di creatori digitali, redattori e creatori di meme trash – immensamente abile nel creare contenuti aggressivi (e spesso fake) da condividere nella rete al fine di diffondere il verbo del guru. Qualcosa di simile alla Bestia salviniana che giustamente ripugna agli altri concorrenti dem per la nomination, ma che risulta molto efficace per fronteggiare la forza eguale e contraria dell’altrettanto spudorato Donald Trump.
Questa strategia spregiudicata che non disdegna di alimentare i più brutali istinti fa di Sanders il candidato più attrezzato nel campo democratico, dove la maggior parte dei candidati è concentrata sui canali tradizionali. Solo Michael Bloomberg, forte della sua solidità patrimoniale, cerca di seguire la stessa scia, investendo non soltanto sull’advertising televisivo ma anche sulla proliferazione e diffusione di meme e messaggistica sui social media. Se questo impegno sarà stato efficace lo scopriremo nei prossimi giorni. Intanto, Sanders ha più follower su Facebook, Twitter e Instagram di qualsiasi altro politico diverso da Trump. L’unica democratica che si avvicina ai suoi numeri è proprio Alexandria Ocasio-Cortez, che è anche la sua più preziosa alleata.
Grazie anche a questa potenza di fuoco, il messaggio politico di Bernie Sanders risulta forte e chiaro. Free college e Medicare for All sono slogan che il senatore ripete fino alla noia conquistando diffusi consensi. Il problema però è che per garantire l’università gratuita a tutti i giovani americani, nazionalizzare completamente i servizi sanitari e realizzare il Green New Deal servono investimenti enormi. «Chi pagherà i piani di Sanders?» si chiede, per esempio, Zachary B. Wolf della Cnn, dimostrando che la cifra necessaria per sostenere tutti i programmi promessi ammonterebbe a qualcosa come 50 trilioni di dollari.
Quando si tratta di spiegare le modalità per realizzare questa spettacolare raccolta fondi Sanders, di solito, fa il vago. Gli americani hanno di fronte a un signore che, un po’ alla maniera grillina, vuole abolire la povertà ma non sa ancora dove prendere i soldi. Un signore che continua ad avere buon gioco perché assai raramente i cittadini si soffermano sulla copertura dei costi delle promesse di benessere.
Tra gli americani più sensibili a questo tipo di racconto populista ci sono i latinos. Si tratta ormai del gruppo etnico più importante d’America. A differenza dell’elettorato afroamericano, sempre più integrato dopo otto anni di presidenza di Barack Obama, quello latinoamericano è in cerca di riscatto. Non bisogna dimenticare, poi, che l’America latina è il laboratorio storico del populismo, sia nella versione peronista che in quella chavista. Nulla di strano che un soggetto come Sanders possa esercitare un fascino perfino “culturale” sui latinos residenti negli Usa.
Proprio per questo il senatore del Vermont sta investendo moltissimo su questa porzione di elettorato con pubblicità massive in lingua spagnola negli stati che hanno una alta densità di latini. Uno sforzo che ha dato i suoi frutti in Nevada, dove Sanders è stato votato dal 53% di questi elettori, tre volte di più rispetto al suo concorrente diretto Joe Biden, fermo al 17%. Una progressione che spaventa i Dem perché a breve andranno al voto quegli Stati – California, Texas, Colorado, Arizona – dove la popolazione latinoamericana è molto forte.
Così, la prospettiva di un candidato populista sta diventando un incubo. «Un liberale vede la disuguaglianza e cerca di ridurla. Un populista vede una lotta di classe spietata e si affida alla concentrazione di potere per schiacciare il nemico», ricorda David Brooks. «Sanders ha un programma di spesa pari a 60 trilioni di dollari che raddoppierebbe le dimensioni del budget federale. Questa concentrazione di potere nell’élite di Washington diventerebbe così la più grande della storia americana». E di fronte allo scenario di un confronto Sanders vs Trump conclude: «Uno spettro si aggira per il mondo: l’aggressivo populismo di destra e di sinistra. Nasce da problemi reali, ma è la risposta sbagliata».