Zero, zero, zeroNon solo Colombia e Messico, ecco quali sono (e come sono nate) le rotte della cocaina

Dopo essere diventati nel 2013 un romanzo a opera di Roberto Saviano, adesso i tragitti della polvere bianca sono stati trasposti anche come serie televisiva. Dal Sudamerica alla Nigeria fino all’Italia, ecco come la droga arriva fino a noi

LUIS ACOSTA / AFP

Nell’immaginario collettivo, la cocaina è oggi identificata soprattutto con i sanguinari cartelli di Colombia e Messico, e con personaggi come Pablo Escobar e “el Chapo” Guzmán: il narco che era stato eletto deputato e quello che era stato inserito nella lista Forbes dei miliardari. Per i più è dunque una sorpresa scoprire che la coca non cresce in Messico, ed è stata portata in Colombia solo di recente. La Erythroxylum coca, questo è il suo nome scientifico, è in realtà originaria degli attuali Perù e Bolivia, dove è stata masticata da tempi immemorabili perché aiuta a combattere la fatica e soprattutto ad affrontare il soroche, mal di montagna tipico delle regioni andine. Il principio attivo è isolato nel 1859 dal medico tedesco Albert Niemann, e ribattezzato cocaina. Nel 1862 il medico corso Angelo Mariani lancia un vino alle foglie di coca che ha grande successo, nel 1886 ad Atlanta il medico e farmacista John Stith Pemberton ne crea una imitazione senza alcool che diventerà famosa come Coca Cola, nel 1879 la cocaina inizia a essere sperimentata come anestetico, e a fine XIX secolo ne sono consumatori sia Sherlock Holmes nella fantasia che Sigmund Freud nella realtà. Ma nel 1914 è messa fuori legge negli Stati Uniti e nel 1920 nel Regno Unito: una decisione poi imitata dalla maggior parte dei Paesi de mondo.

Un consumo illegale resta, ma inizia a diventare un problema sociale solo negli anni Sessanta, per esplodere a fine anni Settanta. In quest’epoca la materia prima continua a venire da Perù e Bolivia. Ma in Colombia dei tempi dell’Alleanza per il progresso di Kennedy è iniziata la cosiddetta bonanza marimbera: un traffico di marijuana verso gli Stati Uniti, propiziato dai volontari del Peace Corps che in Colombia dicono di aver trovato un’erba di qualità sopraffina, e attorno al quale si struttura un primo embrione di criminalità organizzata. Le coltivazioni a un certo punto sono distrutte con bombardamenti di erbicidi, e in seguito decolla la produzione di cannabis negli Usa e in Canada: sia da parte di farmers in crisi per il calo del prezzo dei cereali che di consumatori che se la coltivano in casa. Magari in vasetto o con colture idroponiche.

In Colombia in molti dicono che per il governo Usa il vero problema non era il vizio, ma la fuoriuscita di valuta. Più probabilmente, è il venir meno dell’offerta a indurre molti “fumatori” Usa ad arrangiarsi, e a scoprire che si potevano rifornire da soli senza troppi problemi. Negli anni Settanta, allora, i resti della mafia colombiana della marijuana si riconvertono alla coca: che però, come ricordato, a differenza della canapa indiana, in Colombia non è coltivata, salvo in alcune zone dell’estremo sud. Vanno dunque a rifornirsi in Perù e Bolivia, dove c’è una coltura tradizionale tollerata: non solo per il già citato consumo di foglie di coca che aiuta ad affrontare i problemi di respirazione alle alte quote, ma anche per una coltivazione industriale destinata sia alle multinazionali farmaceutiche che alla Coca Cola. Anche se in quest’ultima dopo la legge del 1914 finiscono foglie di coca depotenziate.

Ben presto si aggiungono coltivazioni illegali, fatte apposta per rifornire i colombiani. In Perù, la produzione di coca diventa uno strumento di autofinanziamento dei gruppi armati, da Sendero Luminoso all’Mrta. In Bolivia, trovano nella foglia di coca una fonte di reddito molti minatori che sono stati licenziati per l’esaurimento dei giacimenti soprattutto di stagno, e che si sono reinventati come coltivatori andando a colonizzare la regione del Chapare. Un leader del loro sindacato è Evo Morales, che sull’onda delle proteste diventerà presidente della repubblica.

Negli anni Ottanta questo traffico arriva all’attenzione dell’amministrazione Reagan, che allo stile del presidente sceriffo decide di dichiarare una vera e propria Guerra alle Droghe. A quell’epoca, i narcos colombiani sono organizzati in quattro cartelli principali, ma rispetto a quelli di Bogotá e del Golfo assurgono a fama internazionale soprattutto il Cartello di Cali dei fratelli Miguel e Gilberto Rodríguez Orejuela e il Cartello di Medellín di Pablo Escobar, dalla seconda metà della decade affrontati tra di loro in una guerra sanguinosa.

L’immagine era che il Cartello di Cali usasse i metodi più soft della corruzione e quello di Medellín quelli più hard degli attentati, ma la verità e che entrambi erano piuttosto versati sia nell’una che negli altri. Piuttosto, il problema fu nel diverso approccio alla politica. I fratelli Rodríguez Orejuela, infatti, secondo uno stile più simile alla mafia siciliana, preferivano restare nell’ombra, limitandosi a finanziare le campagne elettorali. Escobar invece, come ricordato, si era messo in testa di farsi accogliere nell’élite dirigente del Paese, e nel 1982 si era fatto eleggere membro supplente della Camera, in attesa di candidarsi per il Senato. In quella veste fu pure invitato all’insediamento di Felipe González come primo ministro spagnolo, prima che lo scandalo esplodesse e diventasse famoso come lo “zar della cocaina”.

Di nuovo, c’è chi sospetta che a scatenare la tradizionale oligarchia colombiana contro di lui non fossero stati tanto i suoi affari loschi ma il non essere riuscito a restare al proprio posto: e che il governo Usa avesse trovato comodo consegnare all’esecrazione dell’opinione pubblica un singolo cattivo facilmente identificabile; e che il Cartello di Cali fosse entrato a sua volta nell’empia alleanza, pur di togliere di mezzo il rivale. Se così davvero fu, certe cose poi camminano comunque con una logica propria, e se Escobar nel 1993 fu ucciso anche i fratelli Rodríguez Orejuela nel 1995 finirono in galera. Tra l’altro, proprio sotto la presidenza di quell’Ernesto Samper che avevano abbuffato di soldi in campagna elettorale: secondo il beneficato, a sua insaputa. Il posto dei cartelli smantellati fu preso per un po’ dal nuovo Cartello del Norte del Valle, ma anch’esso fu presto eliminato. E nella seconda metà degli anni Novanta la Guerra della Droga in Colombia poteva considerarsi così teoricamente vinta.

Il risultato, però, ricorda la storiella del padre di Bertoldo che aveva seminato spini nel mezzo di un sentiero per chiuderlo, e aveva ottenuto invece di raddoppiarlo. In Colombia, infatti, i resti dei Cartelli passarono dallo smercio alla produzione diretta, in un business su cui si buttarono poi sia la guerriglia delle Farc che i suoi avversari paramilitari delle Auc. E il ruolo di mediatori fu invece assunto dai cartelli messicani, che per gestire meglio il traffico si sono allargati sempre di più in America Centrale.

Ma la coca in Perù e Bolivia continuò a essere coltivata: solo iniziò a partire per una nuova rotta, che attraverso trafficanti brasiliani e nigeriani sfociò in Europa. Narcosur è stata anche chiamata. In Brasile, in particolare, il businnes è stato gestito da gruppi di ex-guerriglieri trasformatisi in criminali comuni: il Primeiro Comando da Capital, gli Amigos dos Amigos, il Comando Vermelho. Il Brasile in questo momento ha il record mondiale nell’export di cocaina, ma la rotta filtra per tutto il Sudamerica. È stata accusata di lucrare con questa rotta Hezbollah, che in America Latina è presente attraverso le reti di immigrati libanesi: “turcos” li chiamano nella regione. Sono stati accusati di arricchirsi con la coca militari e pezzi grossi del regime di Maduro: si parla di “Cartello dei Soli”, dalle uniformi dei militari venezuelani. Tra i sospettati sia il ministro dell’Industria e Produzione ed ex-vicepresidente Tareck El Aissami; sia l’ex-presidente dell’Assemblea Nazionale Diosdado Cabello. Il ruolo del Venezuela avrebbe fatto crescere il peso della rotta per l’Europa: una crescita che ha avuto comunque un suo preciso riscontro in una recrudescenza della guerra tra i cartelli brasiliani.

Venezuela a parte, però, più in generale sospetti sono ricaduti su politici della regione trasversalmente alle appartenenze politiche. Il caso più clamoroso è quello di Dési Bouterse: presidente del Suriname che solo grazie all’immunità della carica evita un mandato di arresto da Europol, dopo essere stato condannato nei Paesi Bassi a 11 anni per narcotraffico. Negli stessi Paesi Bassi, peraltro, un sindacato d Polizia ha lanciato l’allarme su una possibile trasformazione in “narcostato”, per il ruolo del porto di Rotterdam. Ma i porti e aeroporti spagnoli sono altrettanto importanti. E un importante punto di arrivo in Europa è anche il porto di Gioia Tauro, dove pure la cocaina sbarca direttamente dal Sudamerica nascosta tra casse di frutta e altra merce. Nel solo 2016 ne sono stati sequestrati 1700 chilogrammi, ma secondo gli inquirenti non sarebbe che il 10% di quanto viene spedito. In risposta all’intensificarsi dei controlli su Gioia Tauro la ‘Ndrangheta avrebbe diversificato le spedizioni anche verso i porti di Genova e Napoli. Una volta arrivati i panetti di cocaina in Italia, i clan calabresi si occuperebbero di distribuirli alle altre mafie in Sicilia e Campania. Mafia e camorra dunque fanno da dettaglianti, mentre la ‘Ndrangheta ha acquisito il monopolio dell’ingrosso.

Ovviamente, tra il Sudamerica e l’Europa c’è di mezzo l’Africa Occidentale, il cui gigante regionale è la Nigeria. E la Mafia Nigeriana da almeno 15 anni si è radicata anche in Italia. Coordinatore dell’associazione di ricerca Geocrime Academy con passate esperienze nell’Arma dei Carabinieri in attività contro il terrorismo e contro la mafia, Antonio De Bonis sulla mafia nigeriana ha redatto uno studio, nel presentare il quale ha ricordato come proprio perchè si tratta di una realtà poco conosciuta «Gli apparati di sicurezza faticano a mettere a punto mirate ed efficaci strategie di contrasto». Tutte le mafie, spiega, hanno le tre caratteristiche di rispondere a una domanda generata dal mercato (droga, prostituzione, armi, merci contraffatte); di generare enormi flussi di capitale; di essere considerate da parte delle strutture di potere informale un valido asset a cui ricorrere per la gestione dei propri interessi illegali. Ma la mafia nigeriana utilizza in più aspetti di natura esoterica, come strumenti di coesione e controllo interni ed esterni.

La Nigeria, spiega lo studio di De Bonis, è un Paese ricco di materie prime, e al centro di importanti rotte commerciali. Ma ha anche uno dei redditi pro-capite più bassi del mondo, e una forte corruzione. In Italia si parla molto della contrapposizione tra Nord islamico e Sud cristiano, ma ci sono anche enormi differenze tra le aree urbane e quelle rurali, e secolari controversie armate tra allevatori e coltivatori, che producono migliaia di morti all’anno e che sono aggravate dalla crescente siccità e desertificazione. C’è democrazia, ma gestita in modo clientelare. La criminalità inizia con il furto di bestiame tra etnie rivali: tra l’altro, una delle fonti di finanziamento per Boko Haram. Da lì si organizza, e facendosi mafia prende le funzioni dello Stato, specie nell’emigrazione.

Si è fatto molto folklore sulle mutilazioni rituali attribuite ai nigeriani. Ma, spiega lo studio, «Nel novero delle migliaia di morti ammazzati, secondo le stime ufficiali comunque in difetto, decine sarebbero imputabili a sacrifici umani». Radicata nella cultura locale, la stregoneria è un arcaismo che paradossalmente negli anni Sessanta è stato rilanciato negli ambienti universitari, come potente strumento identitario. Nel momento in cui la Nigeria si è trovata negli anni Ottanta al centro della nuova rotta per la droga tra America Latina e Europa attorno alla gestione di cocaina le confraternite cultiste «Sono diventate vere e proprie organizzazioni criminali di tipo mafioso», mettendosi anche al servizio dei politicanti. Nascono così quei Black Eye, Vikings, i Buccaners, Maphite, Dragons, Black Beret, Black Axe, perfino le esclusivamente femminili Temple of Eden, Frigrates, Barracudas, Daughters of Jezabel, che anche in Italia si contendono il territorio a colpi di machete.

In particolare i due clan degli Eye e dei Black Out sono particolarmente forti a Torino, Verona e Napoli, e nel 2016 nell’ambito dell’indagine Black Axe, la Polizia di Stato ha arrestato una ventina di mafiosinigeriani che su erano riusciti a inserire addirittura a Palermo: in quel quartiere di Ballarò sotto la storica influenza della famiglia mafiosa di Palermo Centro. Il tutto su dichiarazioni resa da un Austine Johnbull “Ewosa”, che è stato soprannominato “il Buscetta nero”.

Ma, ovviamente, più importanti dei Buscetta neri restano quelli bianchi. Ed è stata proprio questa nuova rotta verso l’Europa che ha permesso alla ‘Ndrangheta di soppiantare Cosa Nostra, più legata alla vecchia rotta Usa. In effetti nei primi anni Novanta c’era stato un compromesso in base al quale la ‘Ndrangheta si occupava di eroina e la mafia di cocaina. Ma poi dal 1992-93 anche per la cocaina la ‘ndrangheta è divenuta un partner perfetto grazie alla sua rete capillare che le consente di “piazzare” la droga su tutto il continente europeo. L’organizzazione calabrese è stata dai messicani preferita a quella siciliana perché ritenuta più solida e affidabile – stante il legame familiare che lega tutti gli affiliati e che riduce notevolmente il pericolo di collaboratori di giustizia. C’è stato anche un importante collegamento con la Colombia attraverso Salvatore Mancuso Gómez: il figlio di un oriundo di Sapri che era divenuto il capo delle Auc.

I dati 2017 della Direzione centrale per i servizi antidroga confermavano la posizione di assoluto predominio della ‘ndrangheta nella commercializzazione della cocaina. Veniva definita con «Una connotazione, oltre che transnazionale, marcatamente imprenditoriale, forte dei collaudati rapporti con i Paesi produttori, una ramificata presenza in territori interessati dal transito ed una disponibilità finanziaria praticamente illimitata, che garantisce investimenti nei principali mercati illegali». Altre organizzazioni criminali erano giudicate «A un livello più basso. I sodalizi campani e pugliesi, favoriti, i primi, dalla storica e rinnovata capacità, specie delle organizzazioni camorriste più radicate, di relazionarsi con consorterie straniere; i secondi, invece, versatili e flessibili verso affari sempre diversi, dalla particolare posizione geografica della regione, si trovano al centro delle principali rotte del Mediterraneo, in particolare di quella balcanica, sembrando ultimamente focalizzati sulla commercializzazione della marijuana proveniente dall’Albania».

Stando sempre alle risultanze investigative, la ‘ndrangheta avrebbe sviluppato la rotta della cocaina attraverso l’Africa Occidentale spostando il punto di passaggio dalla Nigeria alla Costa d’Avorio e anche alla Guinea-Bissau e al Ghana, da cui poi è smistata attraverso il triangolo Anversa-Rotterdam-Duisburg attraverso società di export-import. Dalla Colombia all’Olanda la cocaina arriva anche attraverso il business della floricoltura, ma i porti africani sono comunque considerati meno sorvegliati, e con i custodi più corrompibili. Tra i cartelli che meglio sfruttano questo percorso è quello dei Commisso di Siderno, che assieme a Crupi e Figliomeni e con gli Aquino-Coluccio di Marina di Gioiosa Jonica costituiscono il cosiddetto Siderno Group of Crime.

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