Le riprese di Anna, la serie tv scritta e diretta da Niccolò Ammaniti e ambientata in un 2020 in cui l’umanità è alle prese con una pandemia, sono state interrotte nel 2020 perché l’umanità è alle prese con una pandemia.
Lo so, è l’attacco più banale possibile, ma non l’ho scritto né per me né per voi: è un incubo che voglio regalare a una ragazza di un paio di decenni fa, una che ha appena scoperto Branchie ed è pazza del racconto dello zoologo zombie in Fango, una così giovane che non le pare vero che esista uno scrittore (vivo, italiano, giovane!) che con gli incubi ci sa fare, uno che sa scontornarli in visioni, impastarne il grottesco con la letteratura. Ecco, l’ho fatto: quella ragazza caduta in un buco temporale, come i sei anni che passano fra l’uccisione di Flora Palmieri e la lettera di Pietro in Ti prendo e ti porto via, o i dieci fra il soggiorno di Lorenzo in cantina e la morte di Olivia per overdose in Io e te – quella ragazza ha fatto una impercettibile, terrificata smorfia.
Per vedere Anna, la serie, non sappiamo più quanto dovremo aspettare; intanto, a molti è venuta voglia di rileggere il libro. È del 2015, e comincia con la descrizione di un bambino vivo e di una donna morta: lui ha tre, quattro anni e si chiama Astor, lei ha trenta, forse quarant’anni, ed è la madre. Il virus che sta cambiando il mondo colpisce soltanto gli adulti e uccide gli adolescenti quando stanno per diventare grandi, insegna loro a cavarsela da soli e alla svelta, con alle spalle il ricordo di chi li ha lasciati e davanti il futuro, un orizzonte così vicino che è un attimo sbatterci il naso.
«Il virus ce l’hanno tutti. Maschi e femmine. Piccoli e grandi. Nei bambini c’è, ma dorme e non fa niente», ha lasciato scritto la mamma nel quaderno nero e consunto intitolato Le cose importanti, che Anna, sorella di Astor, legge e rilegge fino a saperlo a memoria. La comunità immaginata da Ammaniti non è diversa da quella che viene fuori allungando una mano in un’altra piega del tempo e immaginando di toccare questi giorni del duemilaventi, allungarli, moltiplicarli, dilatarli oppure concentrarli fino a far esplodere quello che ci sentiamo ripetere: il contagiosissimo coronavirus non risparmia nessuno, ma a morire sono soprattutto gli anziani.
Così, tra battutismo e complottismi pensionistici, arriva il grande classico: se scarseggiano posti letto, macchinari, risorse, non è più sensato far morire un anziano che un bambino? Di fronte a questo tipo di domande c’è una sola certezza, ovvero che il novantanove per cento delle persone che litigherà sulla risposta non si troverà mai a dover scegliere. Non sono vere domande, ma trappole in cui uno rinfaccerà all’altro di essere cinico e quello risponderà dandogli del buonista. A nessuno interessa davvero la salvezza di qualcun altro, solo la velocità con cui può esercitare un tic sull’interlocutore. Se si può pensare soltanto una società che vada dalla parte opposta, una società in cui quella domanda non può essere fatta, allora si può aprire pagina 141 di Anna: «La vita non ci appartiene, ci attraversa. La sua vita era la medesima che spinge uno scarafaggio a zoppicare su due zampe quando è stato calpestato, la stessa che fa fuggire una serpe sotto i colpi della zappa tirandosi indietro le budella».
Il romanzo di Niccolò Ammaniti è colmo di pietà. Si comincia pensando di trovarci un’assonanza con queste ore, e si finisce impantanati nell’unica cosa che possono insegnarci i romanzi: la complessità. Non bisogna leggerlo perché parla del virus, bisogna leggerlo perché parla alla nostra rabbia, alla nostra fragilità, alla nostra scompostezza e al nostro bisogno di avere un colpevole quando il colpevole è il corpo, che si ostinerà a invecchiare o a cercare un riparo. Nella fuga di Anna e Astor dalle viscere della Sicilia fino allo Stretto di Messina ci sono tutte le fughe sbagliate e grottesche che abbiamo visto, commentato, esortato o stigmatizzato, fughe da una zona rossa che il giorno prima non esisteva e il giorno dopo è diventata un ovunque. Fughe ridicole soltanto perché non raccontate dagli incubi di uno scrittore capace di ricordarci che non esistono luoghi sicuri né luoghi insicuri: c’è un solo luogo insicuro, e siamo noi.