Il rinvio delle Olimpiadi di Tokyo è avvenuto con una rapidità senza precedenti. Cadono, uno dopo l’altro, enormi eventi sportivi, dall’Europeo alla Champions League fino alla Serie A, colpiti dall’epidemia dilagante. Per i Giochi, si aggiunge la sinistra coincidenza delle Olimpiadi di Tokyo del 1940 non disputate per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.
Una decisione del genere era diventata scontata, ma fino al mese scorso neanche immaginabile (e ricorda il too big to fail prima del crollo di Lehman Brother nel 2008) dà l’idea della gravità della situazione attuale. Soprattutto se si pensa alle conseguenze legali dei contratti legati alle Olimpiadi, come la sponsorizzazione di un atleta olimpico o alla prenotazione di spazi pubblicitari sui canali televisivi aggiudicatari dei diritti di trasmissione dei Giochi. O ancora alla prenotazione di viaggi, hotels e biglietti per un evento unico di risonanza mondiale.
Nel mondo legale, nei primi giorni della diffusione dell’epidemia (oggi pandemia), la parola più in voga era “forza maggiore”. Un evento imprevedibile e fuori dal controllo delle parti che, in estrema semplicità, giustifica l’inadempimento di una parte del contratto. I commenti di tutti gli studi legali del mondo hanno fin da subito analizzato i rimedi disponibili nei vari ordinamenti giuridici per dirimere situazioni come questa.
E hanno avuto spazio istituti giuridici come quelli dell’impossibilità della prestazione contrattuale, dell’eccessiva onerosità sopravvenuta o clausole contrattuali relative al material adverse change. Espressioni più tecniche che hanno però lasciato immediatamente il campo alla realtà, dove la rapidissima successione degli eventi lascia poco margine a ragionamenti complessi, soprattutto nel momento in cui l’improvvisa e assoluta mancanza di cassa porta inevitabilmente a difficoltà finanziarie da gestire in tempi strettissimi. Se si considerano le attività commerciali costrette a chiudere dalla sera alla mattina, con conseguente perdita di ricavi e di incassi, ci si rende conto della rapidità della crisi di liquidità e dell’impressionante effetto a catena.
Semplici dati empirici fanno immediatamente ragionare sulla straordinarietà dei giorni che stiamo vivendo. Dal momento dell’inizio dell’emergenza, gli strumenti tecnologici già a disposizione da tempo ma poco utilizzati hanno avuto un’impennata di utilizzo impressionante. C’è stata una immediata capacità di adattamento del tutto imprevedibile e impossibile in tempi normali. Lo stesso vale per il richiamo di medici in pensione e per la costruzione e messa in funzione di ospedali nel giro di qualche giorno.
Anche il mondo del diritto e della giustizia rischia di trovarsi nelle prossime settimane e mesi in una vera e propria emergenza se tutte le problematiche legali legate agli inevitabili inadempimenti contrattuali conseguenti alla pandemia finissero nei tribunali. Ciò non soltanto per il numero delle possibili cause, ma per la necessità di risolvere in breve tempo le liti. Il fattore tempo è estremamente importante perché non tutti avranno la possibilità di aspettare i tempi di una causa, pena la sopravvivenza del proprio business.
Da molti è stata invocata la possibilità di un’interpretazione estensiva dell’obbligo di esecuzione dei contratti in buona fede; in tal senso, il contratto presupporrebbe obblighi collaterali di protezione che portano ad un vero e proprio obbligo di rinegoziazione. A livello internazionale, questo principio è avvertito da tempo; si tratta della c.d. hardship, intesa come alterazione dell’equilibrio sostanziale del contratto che fa sorgere un obbligo delle parti di rinegoziare il contratto.
L’applicazione pratica di questo indirizzo è tuttavia molto difficile perché il concetto di buona fede è difficilmente definibile e catalogabile, così come quello di equilibrio contrattuale. In termini più filosofici che giuridici, la straordinarietà della situazione potrà costringere le parti a farsi reciproche concessioni sull’altare della sopravvivenza del rapporto contrattuale (e dell’esistenza economica delle parti stesse). Non dobbiamo però dimenticare che, come dice il codice civile, il contratto ha «forza di legge tra le parti». È quasi una formula di sacralità del vincolo contrattuale, cui si può derogare solo in limitate eccezioni che rafforzano la regola principale.
Quanto appena descritto è ben rappresentato dalle pagine di cronaca sportiva in cui ci si sta rendendo conto dell’impossibilità della ripresa regolare dei campionati e della necessità – per la sopravvivenza del sistema – di misure straordinarie. Oggi si parla insistentemente del taglio degli ingaggi dei calciatori come di un mezzo (non necessariamente l’unico) per aiutare le società di calcio. Ma non può non tenere conto della particolarità del sistema e delle cifre difficilmente comparabili ad altri ambiti se non a quello del cinema e di alcune nicchie televisive molto ricche.
L’esempio del taglio dell’ingaggio di Cristiano Ronaldo può aiutare a capire come mai. La proposta di una riduzione del 30% del suo ingaggio può sembrare la via più giusta e equa. Ma cosa accadrebbe se applicassimo la stessa riduzione ad altre categorie pagate molto meno? È chiaro che queste misure non potranno che essere concordate tra le parti e difficilmente imposte per decreto.
Se la via della buona fede potrà prevenire molte liti, bisogna chiedersi cosa potrà fare il legislatore per cercare di arginare la situazione di emergenza giuridica. Difficile immaginare delle proposte, in un intrigo di possibili benefici fiscali (ad esempio, recupero fiscale degli eventuali sconti sui canoni di locazione), sistemi alternativi al contenzioso e altri strumenti che potrebbero affiancarsi, semplificandoli, a quelli esistenti nel nostro codice civile per la risoluzione dei contratti o la loro riconduzione ad equità.